Libia. Trump tradisce tutti e sta con Haftar

Lo rivela Bloomberg. Ma il generale “ribelle”è sempre stato un uomo degli americani.

di Enrico Oliari

Se c’è una cosa che può coalizzare i libici di tutte le fazioni, islamiste o meno, è l’anti-americanismo. Gli Usa infatti non sono solo quelli che hanno appoggiato la Francia quando si è trattato di bombardare Gheddafi e avviare il caos libico, presenza dell’Isis compresa. Gli Usa sono anche quelli che sostengono Netanyahu sul nervo scoperto della questione palestinese, quelli che con la scusa più o meno autentica del terrorismo invadono intere nazioni, quelli che tengono in piedi monarchie assolutistiche violente e lesive dei diritti umani.
E gli Usa sono quelli che con la Francia sono i primi responsabili di quanto sta accadendo in Libia, compresa l’offensiva del generale Khalifa Haftar.
E’ quanto riporta oggi Bloomberg citando proprie fonti interne all’amministrazione Usa e vicine al dossier, e se la cosa è sempre stata risaputa, con l’uscita della prestigiosa agenzia assume una certa ufficialità. E’ successo che alcuni funzionari hanno informato la Bloomberg del disco verde all’offensiva dato dal presidente Donald Trump ad Haftar con una telefonata avvenuta il 15 aprile, ovvero che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto l’attacco alla capitale Tripoli per buttare a mare il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto in primis dall’Italia.
Sempre secondo Bloomberg a sollecitare l’intervento di Trump a favore di Haftar sarebbe stato il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi in occasione dell’incontro del 9 aprile, stessa cosa avrebbe fatto il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed al-Nahyan.
Non è neppure un segreto che Haftar avesse ricevuto mezzi ed armi dall’asse emiratino-egiziano in barba all’embargo posto in atto dalle Nazioni Unite (Notizie Geopolitiche ne aveva parlato qui), come pure è evidente che quel traffico non sarebbe potuto avvenire senza il placet degli americani, basti vedere le navi Usa in pianta stabile davanti alle coste libiche.
D’altro canto i detrattori di Haftar hanno sempre sostenuto che il generale fosse da sempre al soldo di Washington poiché, fatto prigioniero nel 1987 dall’esercito ciadiano in occasione della “Guerra delle Toyota”, è stato poi prelevato dalla Cia e portato negli Usa, dove vi è rimasto fino al 2011 per ricomparire in Libia a comandare la piazza di Bengasi nell’insurrezione che ha portato alla deposizione di Muammar Gheddafi.
Haftar, che non a caso è stato sdoganato da Trump come “maresciallo in capo”, sta usando la retorica della lotta al terrorismo e agli islamisti, musica alle orecchie dell’americano medio ben orchestrata dai media vicini a chi comanda. In questi giorni la cosa si è fatta più accesa, con accuse della presenza di miliziani di gruppi ritenuti terroristici o vicini al terrorismo nelle fila di chi difende Tripoli, ma la verità e che salafiti e jihadisti ce ne sono tanti a Tripoli quanti a Bengasi, e che a mettere i soldi per quelli che stanno con Haftar sono come sempre i sauditi. Come nel caso dei madahkilisti, gruppo radicale salafita che, come osserva Federica Patanè sul sito SicurezzaInternazionale della Luiss, “costituirebbe l’ultima minaccia nel contesto del terrorismo in Libia, e starebbe rafforzando la propria influenza sul territorio del Paese”.
I sauditi, che tre anni fa hanno tolto il loro appoggio a gruppi salafiti proprio perché schierati con Tripoli, oggi continuano con il gioco sporco nella Cirenaica: come spesso avviene i conflitti si sovrappongono ed anche lì è in corso quello fra Qatar (Fratelli Musulmani) e Arabia Saudita.
Per farla breve il generale “ribelle” combatte perché ha dalla sua innanzitutto gli Usa e la Francia, determinata questa a scalzare l’Italia dalla sua zona di influenza, poi l’Egitto e l’Arabia Saudita. Più che a un conflitto interno si sta insomma assistendo ad un marasma che rischia di sfociare in una nuova Siria, un conflitto senza fine nel quale la Casa Bianca ha un’evidente responsabilità.

  • Nella seconda foto il generale Khalifa Haftar in posa con esponenti madahkilisti.