Mazzonis, ‘Biden, un presidente di transizione’

“Con lui alla Casa Bianca si metterà nuovamente l’accento sui diritti umani”.

a cura di Gianluca Vivacqua

Post Neronem Galba. A un despota istrionico, gigioneggiante, crudele e lussurioso è succeduto un esperto uomo di Stato, e piuttosto avanti con gli anni. È vero: Nerone, quando salì al trono, aveva molti meno anni di quanti ne avesse Trump allorché entrò alla Casa Bianca: quest’ultimo, anzi, se si guarda all’anzianità al momento dell’insediamento, se la giocava alla pari con Reagan, il più vecchio mai divenuto presidente Usa. Ma Biden è addirittura più anziano del suo predecessore: per la precisione ha un anno in più di quelli che aveva Reagan quando terminò il suo secondo mandato. Di qui la domanda: sarà, quello del senatore del Delaware, un governo di lungimirante traghettamento, destinato, come quello di un suo collega di laticlavio dell’antica Roma, Nerva, ad aprire la strada all’avvento di un illuminato successore (che potrebbe essere Kamala Harris o perché no, Alexandria Ocasio-Cortez, che nel 2024 raggiungerà la soglia anagrafica necessaria per candidarsi, ossia 35 anni)? Eletto (col voto popolare più largo di sempre) come cura anti-Trump, Biden si limiterà a fare quello, e quindi a rimediare il più possibile agli effetti del trumpismo sul piano nazionale e su quello internazionale per poi uscire di scena? Certo è che quell’approccio terapeutico che gli ha aperto le porte della Casa Bianca egli non l’ha deposto neppure dopo che vi è entrato: il neopresidente continua a parlare come uno speaker motivazionale, alle coscienze depresse degli americani. Non ha la charis di Obama ma una certa qual grinta azzimata che lo fa assomigliare molto al suo quasi coetaneo Brian Tracy. Ecco: si può dire che Tracy parla di sviluppo personale come Biden parla di ricostruzione collettiva. Vediamo cosa pensa della figura di Biden, e di quella che potrebbe essere la sua politica presidenziale, Martino Mazzonis, giornalista esperto di cose statunitensi. In particolare si è occupato dell’America obamiana (Come cambia L’America. Politica e società al tempo di Obama, edizioni dell’asino, 2009, con M. Diletti e M. Toaldo) e delle trasformazioni all’interno della destra americana (Tea Party. La rivolta populista e la destra americana, Marsilio, 2012, con G, Borgognone).

– Dott. Mazzonis, la formula più utilizzata per definire la politica estera di Trump è “isolazionismo”; è ancora troppo presto per attribuirne una anche a quella bideniana?
“Per certi aspetti sì e per altri no. In fondo non abbiamo ancora avuto delle crisi, cioè le occasioni in cui, sul piano internazionale, le famose dottrine si confrontano con la realtà. Ciò detto, però, se si guarda a quanto già fatto dalla nuova amministrazione per esempio nei confronti dell’Arabia Saudita, mi pare che si ritorni ad avere un’attenzione particolare verso i diritti umani. Non ci si poteva aspettare altrimenti, d’altronde, dato che si riprende un discorso bruscamente interrotto dopo Obama e con uomini che sono per la maggior parte obamiani (oggi forse più esperti e smaliziati, chissà). Mi viene in mente Samantha Power (l’ex ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite che Biden ha designato a capo dell’USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, ndr), grande teorica dell’interventismo umanitario ai quattro angoli del globo. Con Riad la posizione bideniana è attualmente quella di rinsaldare una storica amicizia ma senza farsi troppi pudori nel porre i sauditi di fronte alle loro mancanze nel campo dei diritti civili (ma sul tavolo c’è anche il conflitto yemenita). Così, se da un lato la Casa Bianca risparmia sanzioni al principe bin Salman, dall’altro pubblica il rapporto Cia sul caso Kashoggi, paradigma dell’intolleranza praticata all’interno del suo Paese dal rampollo della casa regnante”.

– Biden è considerato da molti l’erede e il continuatore di Obama. Sul piano interno c’è anche un importante punto in comune tra i due: la necessità di agire subito per trovare rimedio a una grave crisi, di natura economica per Obama, sanitaria per Biden. Poi Obama, una volta superato il problema impellente che aveva in casa, si proiettò sulla scena internazionale con una politica di rasserenamento diplomatico. Sarà così anche per Biden?
Ovviamente in cima all’agenda di Biden ci sono le grandi questioni interne. Parliamo innanzitutto della pandemia e dell’altra sua sfida-chiave, quella del clima e della riconversione ecologica. Poi, visto che in effetti non si tratta di affari “solo” americani ma di problematiche immerse in uno scenario che si sviluppa sul piano globale, è naturale che – al di là di quella che vorrà essere la visione e la missione internazionale di quest’amministrazione – non mancherà un’attenta valutazione dei riflessi che scelte e atteggiamenti sul versante economico della politica estera hanno avuto, hanno e potrebbero avere sulla vita del Paese. Questa è un’epoca di mutazioni profonde e quindi anche di ripensamenti nel profondo: parlando degli Usa mi riferisco in primis alla spinta per l’apertura delle frontiere nei decenni precedenti, che ha determinato conseguenze pesanti sul mercato del lavoro. Ma ci sarà modo di riflettere anche sulle linee della politica seguita nei rapporti commerciali con i Paesi stranieri, un terreno quantomai cruciale in un momento di crisi sanitaria come questo, in cui tutto si gioca sulla cooperazione tra Paesi per la fornitura di strumenti e materiali. Il fatto è che spesso un presidente è costretto a fare una politica estera di impatto per compensare l’incapacità di portare avanti una politica interna efficace: e questo perché non dispone della maggioranza al Congresso. Con Obama è stato così”.

– Sembra che Biden sin dalle prime mosse sia fortemente deciso a ricucire con l’Iran; in compenso potrebbe esserci una nuova netta chiusura nei confronti della Russia?
L’apertura (o la riapertura) all’Iran è un’apertura di interesse. Biden vuole tornare all’accordo sul nucleare del 2015 che darebbe una dignità diplomatica alla forte volontà americana di imbrigliare il programma di Teheran teso allo sviluppo della bomba atomica. Quanto alla Russia, i rapporti con Mosca della precedente amministrazione democratica non erano certo idilliaci. Eppure Obama non era figlio della guerra fredda. il nuovo presidente, invece, è cresciuto nell’epoca della massima contrapposizione con la Russia, l’ha vissuta in prima persona. In questo senso, si potrebbe parlare di un brusco ritorno a un passato piuttosto lontano”.

– I rapporti con la Cina dell’era Biden sono stati inaugurati da una conversazione telefonica con Xi Jinping non proprio distesissima: cosa potrebbe cambiare rispetto a Trump?
A differenza di quello che potrebbe essere la Russia, per Biden la Cina non è un nemico (anche se, com’è prevedibile, non mancherà un confronto duro sui diritti umani, vedi casi Hong Kong e Xinjiang). Semmai è un competitor, e nel contempo un interlocutore con cui discutere di clima e commercio. Da questo punto di vista non dovrebbe cambiare molto rispetto a Trump, visto che gli Usa continuano a dipendere dalla Cina per quei materiali (come le terre rare) indispensabili per la fabbricazione di batterie e componentistica elettronica”.

– Per finire, come vede il futuro presidenziale di Biden? Pensa che si ricandiderà nel 2024 o è convinto piuttosto che, data l’anagrafe, costruirà un programma calibrato per una presidenza a mandato unico?
In realtà Biden ha detto fin dall’inizio di voler essere un presidente di transizione. Di qui la decisione di circondarsi di una squadra fatta non di primedonne della politica (l’unico vero esponente della nomenklatura del partito, per così dire, è Buttigieg) ma di collaboratori capaci di mettersi al lavoro pancia a terra su un’agenda molto precisa, fatta di tante urgenze interne. Il suo obiettivo è quello di portare almeno a una fase avanzata di avvio quei cambiamenti epocali di cui il Paese ha bisogno, e lasciare in dote il suo lavoro a colui che gli succederà“.