Sacchetti, ‘La rivoluzione iraniana? Non ha più la sua spinta propulsiva’

“Il dopo-Soleimani ha accentuato l’isolamento iraniano”.

a cura di Gianluca Vivacqua

Prima della comparsa del coronavirus nello scenario mondiale non pochi osservatori avrebbero puntato sulla morte del generale iraniano Soleimani, avvenuta in Iraq nella notte tra il 2 e il 3 gennaio, come evento storicamente più significativo del 2020. L’anno era appena iniziato e il raid americano che aveva eliminato il responsabile delle operazioni in trasferta dei pasdaran, con tutte le conseguenze innescate a Teheran e a Bagdad, sembrava giocarsela alla pari con l’impeachment di Trump o l’accordo commerciale Usa-Cina, o la nuova offensiva sferrata da Haftar in Libia: è vero che di una polmonite cinese “simile alla Sars” si cominciò a parlare sin dall’11 di quel mese, ma l’interesse internazionale era tutt’altro che focalizzato su quel fronte. Ora, a distanza di poco più di tre mesi è giusto ridimensionare la portata di quegli eventi, essendo nel frattempo cambiato drammaticamente l’ordine di rilevanza dei fatti. È quello che fa a ragion veduta Antonello Sacchetti, esperto di problemi iraniani che approfondisce online, dal 2012, su Diruz. Ma in prospettiva la questione iraniana è ben lungi dal poter restare “nel cassetto”, come recitava il titolo del sito predecessore di Diruz.

– Antonello Sacchetti, lei pensa che la morte improvvisa di Soleimani in Iraq potrebbe rappresentare quello che è stato per la morte altrettanto improvvisa di Massoud in Afghanistan nel 2001, e cioè un rapido destabilizzarsi del quadro internazionale?
Credo che sia un contesto diverso. Per certi versi l’uccisione di Soleimani da parte degli Usa è un atto ancora più devastante, e per certi versi assolutamente incomprensibile. Il comandante Massoud, nel settembre 2001, venne assassinato in Afghanistan da al-Qaeda, che eliminò così uno dei principali nemici dei Talebani. Lo scenario cambiò improvvisamente con gli attentati dell’11 settembre e la successiva guerra mossa dall’amministrazione Bush. Soleimani era un personaggio importante per l’Iran nello scenario mediorientale: se la questione nucleare e i rapporti con i Paesi occidentali sono sempre stati gestiti dal ministro degli Esteri Javad Zarif, è noto che tutti i dossier più caldi, dalla Siria all’Iraq, erano cosa sua. Il suo era un ruolo noto e riconosciuto: vorrei anche ricordare che Qassem Soleimani, personaggio certamente complesso e criticabile, viaggiava con passaporto diplomatico ed era uno dei pochi in grado di gestire uno scenario complesso quale quello iracheno. Paradossalmente, anche gli Usa hanno perso un interlocutore. Non è un mistero che in Afghanistan, per tornare alla sua domanda, nel conflitto del 2002 fu proprio Soleimani a collaborare con gli americani che cercavano di stanare le basi di Al Qaeda. Quella di Trump, a quanto risulta, sembra sia stata una decisione presa d’impeto, in un momento di rabbia. Ma dietro non è semplice scorgere una strategia, semplicemente perché la strategia forse non c’è proprio. Di fatto, per l’Iran è stata una perdita grave e la crisi che ne è seguita, con la rappresaglia alle basi in Iraq e l’abbattimento per errore dell’aereo ucraino, ha aggravato il proprio isolamento internazionale.
A tre mesi di distanza, dobbiamo prendere atto che il quadro internazionale è stato stravolto dalla pandemia del Covid-19, che proprio in Iran ha uno dei focolai più drammatici. In questo momento sia Teheran sia Washington hanno ben altri pensieri, sebbene il confronto sia sempre aperto. L’Iran, strangolato dalle sanzioni Usa, ha chiesto un prestito da 5 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale per fronteggiare la pandemia. Gli Usa hanno posto il veto e il prestito è stato negato: la realtà è questa
“.

Hassan Soleimani.

– Secondo i sondaggi gli americani approvano i raid ordinati da Trump (senza il consenso del governo iracheno) che hanno portato all’eliminazione di Soleimani; la maggior parte degli iracheni però, e non soltanto la popolazione sciita e filo-iraniana, li ha condannati. Si può prevedere nel medio-lungo periodo un allineamento o una saldatura Iraq-Iran in chiave anti-americana? E quanto potrebbe essere pericoloso?
Poco prima dell’uccisione di Soleimani in Iraq era cresciuto un forte movimento di protesta anti iraniano. L’influenza di Teheran nella politica interna irachena era divenuta particolarmente pesante in un momento di crisi economica. Di fatto, all’indomani della fine di Saddam Hussein, l’Iran è stato in grado di esercitare una forte influenza su Baghdad. Per gli Usa è impossibile pensare a un Iraq come eventuale testa di ponte per un conflitto contro Teheran. Allo stesso tempo credo non dovremmo dimenticare di quanto divisa e conflittuale sia la realtà politica interna irachena. Di certo, l’omicidio di Soleimani non ha raccolto un consenso dichiarato tra gli iracheni, sebbene certamente ce ne siano molti che avevano in odio le milizie sciite e il metodo spregiudicato con cui l’Iran, anche attraverso Soleimani, le abbia utilizzate negli anni. Una saldatura totale e “formale” tra Iran e Iraq la escluderei ma, alla resa dei conti, questo “sodalizio” di fatto esiste già. Non dobbiamo dimenticare che comunque l’Iran è stato uno dei pochi Paesi a combattere l’Isis sul campo e quindi a evitare che Baghdad cadesse nelle loro mani, qualche anno fa“.

– L’Iran di oggi fa più paura dell’Iran dei tempi di Khomeini?
Dovremmo prima capire “a chi” possa o debba far paura. Sono passati 41 anni dalla rivoluzione che portò alla nascita della Repubblica islamica e oggi la spinta ideologica di allora si è assolutamente esaurita. Nessuno, nemmeno a Teheran e nemmeno negli ambienti più radicali, pensa davvero di “esportare” oggi la rivoluzione. L’Iran è oggi una potenza regionale di medio livello, che tra il 2002 e il 2003 ha dovuto rivedere la propria strategia difensiva all’indomani delle due guerre in Afghanistan e Iraq. Che hanno sì eliminato due storici nemici dell’Iran come Talebani e Saddam Hussein, ma hanno anche portato gli Usa a un passo dai propri confini. Tutta la strategia regionale iraniana è improntata su un imperativo: evitare il ripetersi di un accerchiamento come quello verificatosi nel 1980, quando Saddam li invase e la guerra durò otto lunghissimi anni. Tutti gli scenari in cui l’Iran oggi interviene attraverso suoi “proxies” (Siria, Yemen, Bahrein, Iraq) vanno interpretati come un metodo per difendere i propri interessi, che sono essenzialmente di difesa“.

– Quale potrebbe essere oggi, nello scenario mediorientale, il Saddam Hussein anti-iraniano che gioca a favore degli americani?
Non c’è oggi un nuovo Saddam e non è forse nemmeno più il tempo di figure come quella. Nel 1980 Saddam voleva essere il nuovo Nasser, il nuovo leader arabo in grado di raccogliere consensi attorno a una grande sfida. Non gli interessava davvero il petrolio del Khuzestan o l’abbattimento della Repubblica islamica: volevo essere riconosciuto come leader innanzitutto dai Paesi arabi. In parte ci riuscì e ci riprovò anni dopo con la crisi del Kuwait. Ma eravamo in un’altra epoca, in piena Guerra Fredda: le guerre si combattevano ancora in modo “classico”, gli Usa non erano ancora così presenti in Medio Oriente e c’era pur sempre l’Unione Sovietica a tutelare i propri interessi e a contenere le mire degli americani. Oggi gli Usa non hanno bisogno di una figura del genere e la realtà è anche molto più complessa di allora. L’Iran stesso è un altro Paese: da un punto di vista demografico (82 milioni di abitanti rispetto ai 35 del 1979), militare e tecnologico. Difficile prevedere come la crisi della pandemia del Covid-19 potrà influire sugli equilibri mediorientali. Ma forse questo virus sarà dirompente anche dal punto di vista geopolitico“.