Vendita delle armi: si va avanti, oltre la Costituzione e le direttive Ue

di C. Alessandro Mauceri

Da anni guerre, missioni di pace e scontri di ogni genere rimpinguano le tasche delle aziende produttrici di armi e armamenti. Un mercato florido che vive di scambi internazionali regolati da norme ben precise. Almeno sulla carta.
Sono molti i paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti d’America, che hanno fatto di questo mercato una fonte di reddito smisurata alimentata da missioni di pace e forniture estere a chi ha soldi sufficienti per pagare.
In Europa, oltre alle leggi nazionali, dovrebbe essere la Direttiva 2009/43/CE a regolamentare modalità e condizioni dei trasferimenti di questi “prodotti” e a introdurre regole sul controllo all’esportazione, importazione e transito di armi e armamenti. E invece….
Le proteste delle associazioni umanitarie spesso sono rimaste inascoltate. Fino ad ora almeno. Nei giorni scorsi la Corte d’appello britannica si è pronunciata a favore degli attivisti anti-armi i quali sostenevano che alcune vendite non avrebbero dovuto essere autorizzate perché esisteva il rischio che queste armi potessero essere utilizzate in violazione del diritto internazionale umanitario. L’accusa diretta ad alcune aziende (e indirettamente il governo) è stata quella di vendere armi a paesi che le hanno usate per alimentare le violenze nello Yemen. “La Corte d’appello ha concluso che il processo decisionale del governo è stato errato in termini di legge in un aspetto significativo”, ha detto il giudice Terence Etherton mentre emetteva la sentenza. Secondo i giudici, il governo britannico non avrebbe “fatto alcun tentativo” di scoprire se la coalizione guidata dai sauditi avesse violato il diritto internazionale.
Una vittoria? Sì ma solo a metà: la sentenza imporrebbe al governo solo di “riconsiderare la questione”. Un portavoce del governo britannico infatti ha dichiarato che “Questo giudizio non riguarda se le decisioni stesse erano giuste o sbagliate, ma se il processo nel raggiungere tali decisioni fosse corretto”. Nel frattempo il governo preparerà il ricorso.
Incuranti del numero spaventoso di morti in Yemen, tanto che un rapporto del sottosegretario generale agli Affari umanitari delle Nazioni Unite, Mark Lowcock, parla di mezzo milione di morti dall’inizio del conflitti al 2011, il governo britannico sembra deciso a difendere il diritto delle aziende britanniche di vendere armi ai sauditi fino a quando non sarà provato un “rischio evidente” che queste vengono utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto internazionale umanitario.
Ma se nel Regno Unito, si può parlare di una mezza vittoria, in molti altri paesi, la guerra agli strumenti per la guerra sembra non essere neanche iniziata. In Italia Save The Children ha lanciato una raccolta firme per bloccare la vendita di armi all’Arabia Saudita. L’associazione umanitaria non usa mezzi termini e cita il nome dell’azienda che avrebbe venduto armi all’Arabia Saudita sottolineando che si tratta di armi atte ad offendere (principalmente bombe) e non destinate alla difesa. Dati peraltro riportati nel rapporto che, come ogni anno, il governo presenta al Parlamento e che riguarda proprio la vendita di armi a paesi esteri: non solo la Costituzione è chiara in materia, ma anche diverse leggi vieterebbero espressamente la vendita di armi e armamenti ad alcuni paesi, primi fra tutti quelli in guerra o quelli che potrebbero utilizzarle per scopi non legati strettamente alla “difesa”.
Secondo l’ultimo rapporto, armi e armamenti prodotte in Italia sarebbero state inviate a 84 paesi, i tre quarti dei quali extra Nato. E tra i destinatari dei “prodotti” delle aziende italiane, si leggono paesi come l’Arabia Saudita, e poi India e Pakistan (tra loro in guerra da molti decenni) o gli Stati Uniti d’America, Israele, Kosovo, Egitto, Bangladesh e molti paesi centro africani, alcuni dei quali non ufficialmente in guerra, ma dove sono in atto conflitti interni che generano una scia di sangue che arriva fino al Mar Mediterraneo. Nel rapporto si leggono anche i nomi di paesi oggetto di moratoria internazionale, delle Nazioni Unite o Europea o altro, per la vendita di armi! Eppure di questo in Parlamento non si è parlato.
Il rapporto, lunghissimo (l’ultimo è composto da due tomi di oltre 700 pagine ciascuno), è stato presentato al Parlamento, ma nessuno ha detto o fatto niente. Dietro questa vendita di armi e armamenti c’è un giro d’affari di svariati miliardi di euro, cresciuto esponenzialmente fino al 2016 e poi in calo negli ultimi due anni.
Un giro d’affari che nel mondo ha raggiunto cifre spaventose: l’ultimo dato, approssimato per difetto dato che alcuni paesi non hanno fornito i dati richiesti, riportato dal SIPRI e relativo al 2017, parla 95 miliardi di dollari. Una somma pari o maggiore del PIL di molti paesi come la Lituania o il Nepal; perfino lo Yemen ha un PIL di “soli” 69 miliardi di dollari.
Una somma, quella spesa in armi, armamenti e strumenti di distruzione di massa (perchè, al di là degli eufemismi, questo sono le bombe che molti fingono di non sapere a chi sono state vendute o chi le scaglia sullo Yemen), infinitamente maggiore di quella necessaria per abolire la malnutrizione nel mondo, che l’UNICEF stima in 3 miliardi di dollari.
Soldi per salvare la vita dei bambini che i paesi “sviluppati” ed evoluti dicono di non avere. Salvo poi spenderne decine di volte di più in strumenti di morte.