Cop21. E’ in ballo il futuro del nostro pianeta. Ma gli interessi sono contrapposti

di Viviana D’Onofrio –

In una Parigi protetta da imponenti misure di sicurezza, come conseguenza diretta dei gravi attentati terroristici del 13 novembre scorso, ha preso il via il 30 novembre 2015 la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima (COP 21).
Il summit vedrà impegnati, dal 30 novembre all‘11 dicembre, i rappresentanti di 195 nazioni, i quali tenteranno di trovare un tutt’altro che scontato accordo globale sul clima, finalizzato a limitare il livello di emissioni di gas serra (ghg) con l’obiettivo, di importanza fondamentale in un’epoca in cui quello della salvaguardia dell’ambiente è divenuto un “dovere morale“ per l’intera comunità internazionale, di fronteggiare il grave problema rappresentato dal riscaldamento globale.
Il fine della Conferenza è quello di contenere fino al 2100 l’innalzamento della temperatura globale entro i 2 gradi centigradi rispetto a quello che viene indicato come periodo pre-industriale. Il superamento di una simile soglia è stato infatti ritenuto dagli scienziati come un “punto di non ritorno“ nella direzione della distruzione del nostro pianeta.
Secondo il Rapporto sul clima presentato nel 2014 a Berlino dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), tra il 2000 e il 2010 le emissioni di gas ad effetto serra sono aumentate più rapidamente di quanto accaduto nei tre decenni precedenti. Secondo gli esperti, al fine di contenere l’incremento della temperatura globale entro i due gradi centigradi, ossia il livello massimo considerato sostenibile, le emissioni di gas serra dovrebbero essere ridotte almeno del 40% entro il 2050. Secondo quanto si legge nel Rapporto, in caso di inazione su questo fronte da parte della comunità internazionale, entro il 2100 le temperature medie globali aumenteranno fra 3,7 e 4,8 gradi centigradi, livello ritenuto assolutamente insostenibile per il nostro pianeta.
La possibilità di raggiungere un accordo nell’ambito della Conferenza di Parigi costituisce, come è semplice intuire da quanto appena affermato, una questione di importanza cruciale per la comunità internazionale, se si tiene conto delle “gravi condizioni di salute“ dell’ambiente globale, così come testimoniato da numerosi rapporti sul cambiamento climatico susseguitisi nel corso degli anni e dal progressivo preoccupante deterioramento degli indicatori ambientali.
Secondo lo studio condotto lo scorso anno dal già menzionato Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, gli effetti del surriscaldamento globale sarebbero catastrofici: l’incremento della temperatura globale determinerà, tra l’altro, gravi siccità, un aumento di piogge intense, una riduzione dei raccolti, inondazioni di zone costiere e carestie. Come da più parti sottolineato, sarebbero i Paesi più poveri a subire le conseguenze più devastanti di un mancato accordo sulla riduzione dell’emissione dei gas ad effetto serra. Quello che si tenta di raggiungere a Parigi assume, dunque, i contorni di un accordo indispensabile e di portata epocale, al fine di evitare le gravi conseguenze che il cambiamento climatico avrà sulla pace e sulla sicurezza internazionali.
A Parigi, in questi giorni, è dunque in ballo il futuro del nostro pianeta.
Il raggiungimento di un accordo che consenta di evitare le conseguenze catastrofiche dell’innalzamento della temperatura globale non è, come già detto, cosa semplice.
Le prime difficoltà si sono palesate già in avvio di Conferenza, quando sono emerse due posizioni tra loro contrapposte: da un lato i Paesi occidentali hanno sottolineato l’urgenza di affrontare la questione del cambiamento climatico nella ormai maturata consapevolezza del fatto che si tratti dell’ultima possibilità di salvare il pianeta Terra; dalla parte opposta i Paesi in via di sviluppo e in particolare Cina e India, i due giganti asiatici, hanno chiesto che il dovere di salvaguardare l’ambiente globale non vada a compromettere le proprie possibilità di sviluppo economico ed hanno rivendicato il proprio diritto a perseguire determinati livelli di crescita economica, ritenendo l’uso del carbone assolutamente indispensabile in un’ottica simile.
Proprio l’esistenza di tale disaccordo costituisce uno dei primi punti critici della 21ma Conferenza delle Nazioni Unite sul clima.
La contrapposizione tra economie avanzate e PVS ha accompagnato tutti i Vertici mondiali concernenti problematiche di natura ambientale. Fin dal primo summit internazionale sul clima, la Conferenza di Stoccolma del 1972, e passando attraverso il Vertice della Terra, svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992 nonchè nell’ambito delle negoziazioni relative all’adozione del Protocollo di Kyoto, i PVS hanno fatto resistenza, sostenendo di avere diritto a proseguire sulla strada dello sviluppo economico e sottolineando come le maggiori responsabilità nel deterioramento dell’ambiente globale vadano riconosciute in capo ai Paesi economicamente avanzati. Sulla base di ciò, secondo i PVS, sono proprio le economie avanzate che devono farsi carico in misura maggiore dei costi derivanti dall’obbligo morale di salvare il pianeta, essendo stati i principali colpevoli del deterioramento dell’ambiente globale.
I PVS fanno, dunque, appello al principio delle “responsabilità comuni ma differenziate“, principio sancito dall’articolo 7 della Dichiarazione di Rio, adottata nell’ambito dell’Earth Summit del 1992, e secondo il quale “In considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono“. Il principio in questione prevede, dunque, che, fermo restando il dovere di tutti gli Stati della comunità internazionale di agire per fronteggiare il degrado dell’ambiente globale, vadano tenute nella dovuta considerazione, nel determinare la risposta a problematiche di natura ambientale, le differenti possibilità economiche ed il diverso grado di sviluppo economico dei vari Paesi.
Le resistenze dei PVS si sono manifestate, nel corso degli anni, anche nell’ambito delle negoziazioni svoltesi nell’ambito della World Trade Organization e finalizzate ad affrontare la problematica del legame tra commercio ed ambiente e delle conseguenze ambientali del processo di liberalizzazione commerciale. Il timore dei Paesi economicamente svantaggiati era, ovviamente, che la necessità di rispettare determinati standard di conservazione dell’ambiente potesse costituire un pericolo per le proprie possibilità di sviluppo economico.
Nell’ambito della COP 21, l’urgenza di affrontare il problema del cambiamento climatico è stata affermata dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ieri, dinanzi ai leaders riuniti a Parigi, ha apertamente riconosciuto la responsabilità dei Paesi economicamente avanzati nel deterioramento dell’ambiente globale ed ha individuato nella lotta al cambiamento climatico e nel raggiungimento di un accordo “un imperativo economico e di sicurezza che dobbiamo affrontare ora“.
Il presidente ha inoltre aggiunto che “Siamo la prima generazione ad aver provocato il cambiamento climatico, ma forse siamo anche l’ultima a poter fare qualcosa“, sostenendo tra l’altro che “L’accordo sul clima in preparazione a Parigi deve essere vincolante, almeno per quanto riguarda la trasparenza e le revisioni periodiche degli obiettivi di diminuzione delle emissioni di gas serra”. Secondo Obama, in assenza di una seria risposta della comunità internazionale al problema dei cambiamenti climatici, esiste il rischio di creare nuovi “rifugiati” provenienti dalle piccole isole del Pacifico.
Ad Obama ha fatto eco il Presidente francese, Francois Hollande, il quale ha sottolineato la necessità di agire al fine di combattere il cambiamento climatico, ritenuto colpevole di dare luogo a fenomeni migratori in misura superiore a quanto facciano le guerre.
Sulla stessa scia si è posto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, il quale ha definito la conferenza sul clima “un’occasione politica unica che potrebbe non tornare” e che ha rivolto un appello a tutti i governi partecipanti: “Il futuro del nostro popolo e del nostro pianeta è nelle vostre mani. Abbiamo bisogno di un accordo universale, robusto e significativo“.
A Parigi sono, però, emerse fin da subito le preoccupazioni di alcuni Paesi che si stanno muovendo sulla strada della crescita economica e che temono fortemente che il rispetto di determinati parametri ambientali possa compromettere le proprie possibilità di sviluppo.
Il premier indiano, Narendra Modi, ha puntato il dito contro le nazioni ricche che devono assumersi più responsabilità nella lotta ai cambiamenti climatici e, pur riconoscendo la necessità di affrontare la problematica del global warming, ha avvertito: “Il cambiamento climatico non l’abbiamo prodotto noi. E i Paesi poveri hanno il diritto di continuare a usare il carbone se questo serve a far crescere le loro economie”. “Sarebbe eticamente sbagliato – ha aggiunto – scaricare il peso di ridurre le emissioni sui Paesi in via di sviluppo come l’India. Gli stili di vita di pochi non devono eliminare le opportunità dei tanti ancora ai primi passi della scala dello sviluppo“.
Il ministro dell’Energia indiano, Pyush Goyal, ha così sintetizzato la posizione del proprio Paese: “Non abbiamo intenzione di scusarci per il nostro utilizzo di carbone. L’America e il mondo occidentale si sono sviluppati per gli ultimi 150 anni alle spese dell’energia a basso prezzo derivata dal carbone. E alle spese di questa ‘energia low-cost’ si sono costruiti le loro autostrade, le loro ferrovie, le loro fabbriche, i loro laboratori e improvvisamente tutta la loro gente ha un lavoro, ha una casa, il loro Pil pro capite supera i 70mila dollari all’anno e la loro crescita è ferma a zero. E adesso hanno lo stomaco di chiedere al resto del mondo “per favore, non crescete. Se crescete tutti alla velocità dell’India, cosa ne rimarrà di noi e dei nostri Paesi?“.
In linea con la posizione indiana si trova quella della Cina, il Paese con il più elevato livello di emissioni di CO2. Il presidente cinese, Xi Jinping, ha, infatti, confermato l’impegno di Pechino nell’ambito della lotta al riscaldamento globale, ribadendo, però, al tempo stesso che, in base al principio delle “responsabilità differenziate“, la lotta a cambiamenti climatici “non dovrebbe negare le legittime necessità dei Paesi in via di sviluppo di ridurre la povertà e migliorare gli standard di vita della propria popolazione”.
Anche il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha sostenuto che “È illogico che i Paesi ricchi non soltanto si dimostrino taccagni nel fornire a quelli poveri i mezzi per contrastare il surriscaldamento globale, ma che addirittura siano smodati nel voler gravare noi del compito di rimettere in ordine il pasticcio che essi stessi hanno combinato. Noi africani – ha avvertito Mugabe – non possiamo e non vogliamo farci carico di ulteriori obblighi, altrimenti intaccherebbero le nostre aspirazioni allo sviluppo, e in particolare i nostri sforzi per estirpare la povertà”.
A tutto ciò si aggiunga il no del Nicaragua al taglio delle emissioni di CO2. Le autorità del Paese centroamericano hanno, infatti, reso noto che non presenteranno un piano su tagli di emissioni di CO2 su base volontaria perché questo metodo “ucciderebbe“ il concetto di “responsabilità storica” dei principali inquinatori del pianeta. Paul Oquist, capo delegazione, ha dichiarato che altri cinque Paesi tra quelli presenti alla Conferenza di Parigi, Venezuela, Bolivia, Argentina, El Salvador e India, sono allineati su tale posizione.
Oltre a costituire fonte di difficoltà nel raggiungimento di un accordo assolutamente indispensabile al fine di evitare le catastrofiche conseguenze del cambiamento climatico, i primi disaccordi emersi tra Paesi economicamente avanzati e Paesi che stanno tentando di raggiungere determinati livelli di sviluppo economico mostra, dunque, come sia difficile trovare un compromesso tra esigenze di salvaguardia dell’ambiente e perseguimento di obiettivi di crescita economica.
Il timore dei Paesi in via di sviluppo che la lotta al degrado ambientale globale possa compromettere le proprie possibilità di crescita economica e di raggiungimento di più elevati standard di vita per le proprie popolazioni, timore che ha accompagnato anche le altre conferenze mondiali relative a questioni ambientali svoltesi nel corso degli anni, costituisce un ostacolo importante nell’ambito del raggiungimento di un accordo globale sul clima, accordo assolutamente indispensabile se si vuole evitare la distruzione del nostro pianeta.