di Giovanni Caprara –
La Guerra fredda come sinonimo di equilibrio, inteso nell’esercizio mentale indispensabile a non voler essere i primi ad attaccare l’avversario. Equilibrio irrisoluto e fluttuante, pregno di atti di spionaggio, provocazioni ed accuse reciproche. De facto era la speranza di governare lo stato dei fatti. L’equilibrio sussultò in quei tredici giorni, dove la contrapposizione si inasprì mutandosi nelle rampe di lancio dei missili nucleari approntati a Cuba. L’umanità si fermò ad ascoltare i colloqui fra le superpotenze, ad assistere all’evolversi del confronto. Nessuno però prospettava che la reale minaccia ed i fatti da seguire erano altrove. Durante un’operazione militare, un elemento ostativo è la rottura della catena di comando, ancor più in quel periodo dove la tecnologia era a divenire. In quei tredici giorni questo avvenimento inauspicabile accadde in tutta la sua drammaticità.
Il 1 ottobre 1962, quattro sommergibili d’attacco “hunter/killer” sovietici salparono da Sayda Guba nei pressi di Murmansk, base navale strategica della Flotta Rossa del Nord. Erano il B4, B36, B59 ed il B130, inquadrati nella 69a Brigata Sottomarina.
Il codice di riferimento NATO: Foxtrot.
La missione loro assegnata consisteva nello scortare il convoglio russo diretto a Cuba ed una volta nell’Isola si sarebbero dovuti attraccare nel porto di Mariel. Da quel primo giorno di ottobre si susseguirono una serie di avvenimenti tali che portarono l’umanità alle soglie dell’olocausto nucleare. Il 15 ottobre gli “hunter/killer” ricevettero un cambio di ordini: dovevano stazionare nel Mare dei Sargassi e navigare in stato di combattimento. I quattro Foxtrot furono rilevati più volte dal sistema di difesa integrato antisommergibile americano e nel pomeriggio del 22 ottobre, il direttore della CIA, John Mc Cone, informò il presidente Kennedy che i quattro Foxtrot erano in posizione al largo di Cuba. Nella stessa giornata il capo delle operazioni navali, l’ammiraglio Anderson, avvisò i comandanti delle unità di superficie su un possibile attacco sovietico contro le forze schierate a garanzia del rispetto della quarantena. Il 24 ottobre, alle ore 10.00 del mattino, McNamara ragguagliò il National Security Council sui quattro hunter/killer, specificando che si approssimavano alla linea di interdizione. In questa occasione suggerì di tenerli sotto costante pressione, ma a tal proposito il presidente Kennedy si espresse specificando che per nessun motivo le unità americane avrebbero dovuto aprire il fuoco per prime. In contrapposizione arrivò la risposta di Krushov, il quale minacciò di attaccare chiunque avrebbe tentato di fermare il convoglio diretto a Cuba.
La contromossa fu quella di rendere operativa la quarantena; erano le 10.00, ora della costa est.
Tra il 24 ed il 25 ottobre furono riportati diversi avvistamenti dei quattro sommergibili, ma sul finire del 25 uno di essi divenne il segreto protagonista della crisi di Cuba: il B59 fu rilevato ad est delle isole Bermuda. Erano le 18.11 e venne designato come contatto 19: C19.
Il 26 ottobre il CVBG della portaerei Randolph, identificativo ottico CV15, con i suoi otto Destroyer entrò nella zona di pattugliamento assegnatagli; la stesso del B59. Alle ore 19.15 GMT, un aereo da ricognizione denominato “Woodpecker 5” lanciato dalla Randolph, riportò un contatto MAD alle coordinate 20°65’47’’W.
Sulla scena apparve il secondo protagonista della vicenda: il Destroyer USS Cony, identificativo ottico DD508.
Nella tarda serata del 26 ottobre, infatti fu questa unità che venne incaricata dalla Randolph di verificare la natura del contatto indicato dal ricognitore. Una fonte riporta un’altra nave, ma è assolutamente falso, in quanto la missione risulta direttamente dal Deck Log Book del Cony. Il giorno successivo il contatto fu rilevato a 380 miglia nautiche a sud-est delle Bermuda e confermato anche dal CVBG della portaerei Essex in navigazione a 170 miglia nautiche dal punto del contatto sonar. Dalla CV15 fu ordinato il decollo immediato di velivoli ASW S2F ed elicotteri Sea King.
La caccia era iniziata.
Il C19 venne rilevato senza alcun dubbio residuo. Il Cony attivò il sonar di ricerca in modalità attiva, i suoi “ping” rimbalzarono ossessivi e terrificanti sullo scafo del Foxtrot, il DD508 si era così rivelato all’avversario, ma al contempo comunicava al B59 di essere stato oramai scoperto, vanificando il significato stesso della missione assegnatagli dal Comando Nord. A bordo del C19, cominciò a diffondersi il nervosismo e la tensione dei marinai divenne palpabile. Neanche il comandante Savitsky risultò indenne a questi sentimenti. In quei momenti un sommergibilista si sente preso in trappola, pensa di non avere altra via d’uscita se non quella di attaccare. La tecnologia navale applicata alle unità sommerse, in quel periodo accusava una mancanza: il riciclo dell’aria. La propulsione dei sommergibili era diesel-elettrica, che garantiva una notevole silenziosità di esercizio, elemento fondamentale per non essere rilevati, ma al contempo l’apparato motore necessitava di aria sia per ricaricare le batterie che per ventilare i locali di tutta l’unità. Tali operazioni avvenivano tramite un albero retrattile chiamato “snorkel” che esteso oltre la superficie dell’acqua, aspirava aria. Questa pratica occorreva ogni 24/48 ore, metodologia tramontata alla messa in esercizio dei propulsori nucleari e di quelli a celle di idrogeno. Dunque anche se il B59 fosse riuscito a sganciarsi, sarebbe stato nuovamente rilevato quando il deficit di aria avrebbe reso necessario l’impiego dello “snorkel”. Infatti, conosciuta la posizione iniziale del Foxtrot, le unità americane presenti in gran numero in quell’area potevano avviare un piano di ricerca, basato sulla velocità relativa del B59, in ogni direzione presumibile. Il colpire lo scafo con i “ping” del sonar, era come avvisare il comandante del C19 di essere un facile bersaglio, una tattica tutt’ora in uso. L’azione intimidatoria intrapresa dal DD508, non ottenne l’effetto desiderato: il Foxtrot rimase in normale navigazione. Erano le 17.29, ora locale dell’area di pattugliamento, quando il comandante del Cony, indispettito dalla noncuranza palesata dal B59, decise di passare ad azioni più coercitive: bersagliò il Foxtrot con bombe di profondità ma con carica da addestramento, ossia solo produttrici di esplosioni ma non in grado di arrecare danni. Anche questo dato si evinse dal Deck Log Book, in data 27 ottobre 1962, Huchthause a pagina 169. Evidentemente il comandante del Cony aveva perso il contatto con la realtà, accecato dalla bramosia di vincere quella che era diventata la sua guerra personale con il nemico nella profondità oceanica, da cui si sentiva irriso. Un ordine discutibile emanato con la leggera convinzione che i russi avrebbero avuto la capacità di discernere la deterrenza dall’offesa, dunque determinarlo come un ulteriore avviso ad arrendersi piuttosto che ad un attacco reale. Savitsky lo capì, ma non poteva certo prevedere sin dove l’aggressore si sarebbe spinto, anche in considerazione del costante incremento dell’atteggiamento ostile del Destroyer. Il tempo trascorreva e con esso la riserva d’aria, il caldo a bordo era oramai insopportabile, probabilmente oltre i 45 gradi, con il contenuto di anidride carbonica vicino ai livelli di rischio. La velocità del B59 si riduceva verso quella di minimo sostentamento. Savitsky, oramai depresso, frustrato e furioso diede l’ordine estremo: approntare tubo di lancio con siluro a testata nucleare. Secondo la testimonianza di un ufficiale presente nella sala comando del C19, Savitsky ipotizzò l’azione dell’unità di superficie come dimostrava che Russia e Stati Uniti erano già in guerra e pertanto doveva colpire il Destroyer con l’arma più letale di cui disponesse. In tal modo non avrebbe coperto di vergogna la flotta sovietica. Le condizioni generali del suo stato d’animo peggiorarono notevolmente quando non riuscì a contattare il comando per fare rapporto sulla situazione; ciò lo convinse definitivamente che erano in stato di guerra e forse Murmansk non esisteva già più.
Mentre gli statisti cercavano una soluzione incruenta alla crisi, due comandanti erano pronti a vanificarne gli sforzi, infatti all’affondamento del Cony si sarebbe scatenato un irreversibile effetto domino tale da scatenare la guerra termonucleare. Il protocollo per l’impiego di armi nucleari prevedeva che il comandante, il secondo e l’ufficiale politico, fossero d’accordo sull’ineluttabile quanto fatale ricorso al lancio. Lo Zampolit Maslenikov supportò il collerico Savitsky, ma l’ufficiale in seconda Vasilij Arkhipov pronunciò un perentorio e distonico “Niet”. Evidentemente era l’unico ancora presente a se stesso, in simbiosi con la ragione ed osservante alle regole d’ingaggio; di fatti non avevano riportato danni e nessuna evidenza suggeriva che si trovassero in guerra. L’olocausto nucleare fu scongiurato con una semplice quanto opportuna sillaba. Alle ore 20.52 del 27 ottobre, oramai ridotto al minimo dell’operatività, il B59 emerse dalle profondità. A bordo del Cony era imbarcato un marinaio che conosceva il cirillico, tramite segnali luminosi chiese al C19 di quale unità si trattasse, in quanto non riportava sullo scafo il numero di identificazione ottica, evidentemente raschiato via. La risposta fu secca e scostante, una semplice “X”. Il DD508 offrì assistenza tecnica e sanitaria, ma Savitsky rifiutò. Tra le ore 22.00 e le 07.00 del giorno successivo, il B59 fu raggiunto e circondato da altre unità di superficie: il Beale, il Lowry ed il Murray.
Su come il C19 sfuggì agli americani è leggenda.
Quello che rimane è stata la capacità di rimanere a contatto con la realtà palesata da Arkhipov, il quale con la sua oculatezza risparmiò al genere umano la guerra termonucleare. Di lui si seppe che fu arrestato. Ora il suo corpo riposa a Murmansk. Di ufficiale è riportato un Navy Message inviato al COMASWFORLANT dal Destroyer Barry il 30 ottobre 1962 alle ore 02.06 GMT, dopo aver perso il contatto con il C19.
Citava laconicamente: “went deep”.