Non è mai troppo tardi. Per leggere, ancora una volta, l’art. 1 della nostra Costituzione

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, basta davvero un click oppure un testo tascabile.

di Angelo Lucarella *

Non vuole essere retorica, ma il doveroso richiamo a ciò che è il dono più grande della nostra contemporaneità: non foss’altro perché lavorare significa rispettare il dettato costituzionale, da una parte, e coltivare la pace sociale, dall’altra parte.
Ma il modello su cui poggiava e poggia l’impianto della nostra società è messo a dura prova dalla drammatica incidenza del risaputo coronavirus.
L’equilibrio costruito in decenni è davanti ad un bivio: crescita ad ogni costo o sostenibilità all’insegna della tutela primaria della salute, del lavoro (qualunque esso sia) e dell’unità del paese?
Una domanda che ammorba quasi tutti coloro che si interessano oggigiorno di diritto, economia, sociologia, politica, ecc.
Non occorre, però, andare oltre a quanto è certo in questo momento: esiste una Carta fondamentale che pone al primo posto la dimensione lavoristica dell’Uomo e lo fa affermandone la sacralità in ogni sua forma (a prescindere, quindi, se trattasi di esercizio autonomo, dipendente, imprenditoriale, pubblico o privato).
C’è un problema, di tutta evidenza eccezionale, che sta fagocitando sia risorse umane che risorse economiche: la crisi mondiale da COVID 19.
Crisi che, stima del Fondo Monetario Internazionale, si assesterà intorno al – 3% del PIL entro il 2020. Le stime per l’Italia, invece, sono al – 9% circa.
La peggiore recessione, in pratica, registrata sin dagli anni trenta del secolo scorso allorquando si parlava addirittura di “Grande Depressione”.
Ed allora si paventa l’inizio di una Repubblica fondata sull’assistenza? Con quali risorse? Con quale impatto di tenuta sociale?
Tema, onnicomprensivamente, alquanto difficile da trattare e che si instrada su un cammino pieno di buche; occorre tuttavia imporsi un categorico “dobbiamo riuscirci a tutti i costi”.
Oggi, indubbiamente, non si può pensare di condurre al sottosoglia di povertà chi già soffriva e, per trascuratezza sistemica, condurne degli altri.
Diventerebbe un tal problema quasi paragonabile ad un cane che si morde la coda senza soluzione di continuità.
Quindi l’approccio dell’assistenza finalizzato a preservare un minimo stato di degna sopravvivenza dell’individuo non è solo funzionale, ma essenziale al sistema paese (tenuto conto che, tra l’altro, dati Istat, al quarto trimestre del 2019, consolidavano il tasso di disoccupazione nazionale al 9,9% mentre quello dell’Eurozona, a gennaio 2020, si attestava al 7,4%).
Non si può certo disconoscere che il lavoro, in quanto tale, poggi geneticamente la ragion d’essere (in un sistema democratico che si rispetti) su tre elementi imprescindibili: libera iniziativa economica d’impresa, la competitività virtuosa e la tutela della salute sia per il lavoratore dipendente che per l’imprenditore (due facce della stessa medaglia atteso il rapporto complementare – necessario – tra quest’ultimi).
Come si può quindi ripensare un modello di società vincente, sotto un profilo umanistico, e al tempo stesso sostenibile, sotto il profilo realistico, mantenendo intatte le tutele costituzionali nella vita reale ottimizzando, al contempo, le risorse disponibili?
A titolo di esempio, il reddito di cittadinanza ben potrebbe essere rivisitato, normativamente parlando, al fine di indirizzare coloro che, innatamente o successivamente, hanno manifestato una propensione all’attività d’impresa per avviare, dopo aver usufruito di un periodo tampone (di magari due anni per uscire dallo stato di indigenza o difficoltà cronica), una realtà produttiva. A ciò aggiungendosi ovviamente una politica fiscale ad hoc con effetto cuscinetto a sostegno dell’avviamento.
Ci si immagini, per un attimo, quanto efficace possa essere (oltreché utile) uno sdoganamento funzionale del reddito di cittadinanza nella prospettiva imprenditoriale appena accennata (od anche altro tipo di misura assistenziale sia ben chiaro) ordinatamente legato all’obiettivo primario di uno Stato: recuperare la capacità “lavoristica”, produttiva, contributiva ed attiva dell’individuo sia in termini di autonomia che di dignità esistenziale.
È altrettanto chiaro che si potrebbero ripensare tante altre fattispecie, ma per farlo occorre una politica che nella sua interezza di classe dirigente (quindi non riferito ad un partito piuttosto che ad un altro) sia d’impatto rispetto al “come” gestire il momento assistenzialistico di una parte del paese così da condurlo verso un nuovo modello di società in cui, inevitabilmente, occorrerà più sensibilità rispetto alla questione dell’inquinamento ambientale e, mi si consentirà, anche dell’inquinamento mentale (non foss’altro per i numerosi suicidi del nostro paese).
Ciò nell’ottica di una sostenibilità sistemica (che altro non sarebbe essenza realistica) legata alla ragionevolezza di una visione di crescita che non per forza di cose deve tradursi in sfrenata ricerca della ricchezza.
Quindi il ruolo della nostra Costituzione è ancora attualissimo: prima di destra, centro o sinistra c’è l’Uomo, il cittadino, il lavoratore e lo “spirito realizzatore”.
Spirito, quest’ultimo, che è innato nell’italianità.
Tante aziende, grandi e medio-piccole, del nostro paese sono rinomate nel mondo (e fiore all’occhiello) per il connubio indissolubile di successo costituito e costruito nel tempo dal reciproco rispetto tra imprenditore e lavoratore.
La politica può prendere esempio da quest’ultimi per ritrovare una dimensione costruttiva con una inclinazione programmatica volta ad immaginare un nuovo futuro (partendo dal presente): anzitutto vaccinarsi dagli “ismi” distruttivi che aleggiano con il sapore di passato è doveroso al fine di non piegare il capo dinanzi alle responsabilità dei tempi che corrono.
De Gasperi, uno dei padri fondatori della nostra Repubblica, il vaccino lo aveva scoperto e donato agli italiani (chiaramente insieme ad altri della sua elevata – mi si lasci abusare del termine – statura scientifico-politica”) quando teorizzava per la politica stessa di “lavorare in profondità”, senza ambizioni particolaristiche, con alto senso del dovere e, per l’appunto, “spirito realizzatore”.
E se il nostro paese ritrovasse in questa lungimirante innovazione, pur quasi centennale, la capacità di ripensare il mondo del lavoro, calarlo nella vita reale (pur considerando gli effetti economici del coronavirus), assicurando la prospettiva imprenditoriale e la sostenibilità del lavoro stesso (sperando altresì nella preservazione del livello di tutele temporali), allora, vorrà dire che la politica tutta non potrà tirarsi indietro rispetto alla necessità di alzare il livello complessivo.
Se non altro per rispetto nei confronti di quei cittadini che, nel quotidiano, nelle sofferenze, nelle preoccupazioni, non mollano neanche un secondo per “lavorare in profondità”, per reinventarsi, per ricominciare nonostante tutto, anche se (onestamente) non sia facile camminare in acque alte, accennatamente toccando il fondo, restando in apnea.
Per questo gli “ismi” otre ad essere anacronistici, non alzano il livello neanche per aiutare chi si ritiene e presume incapace al comando oggi.
Ce lo ricorda la nostra storia (alcune volte) di mala salute politica.
Perché quando, invece, la politica è sana nella sua interezza diventa il Braccio, Forte del popolo ma che, come tutte le utopie, rimane solo l’idea di una “società modello” piuttosto che la colonna vertebrale del contemporaneo “modello di società”.

* Avvocato esperto di contenzioso tributario, docente presso le università Fedriciana (Diritto Costituzionale) e Hermes (Diritto Tributario).