di Maddalena Pezzotti –
Ogni conflitto ha tre componenti fondamentali: gli atteggiamenti, ovvero le immagini del nemico e i sentimenti/risentimenti che alimentano la guerra; i comportamenti, ovvero le azioni che si compiono nella pratica per infliggere danni al nemico; e le cause che conducono alle ostilità. Gli atteggiamenti sono oggetto del peacemaking, connesso al lavoro di stati o altri attori internazionali, che prevede funzioni di mediazione e conciliazione, allo scopo di raggiungere un accordo per interrompere i combattimenti. I comportamenti sono materia del peacekeeping, relazionato all’obiettivo di tenere separate le parti e ridurre gli attacchi armati, creando un ambiente sicuro per la popolazione. Le cause, infine, sono il campo del peacebuilding che persegue il risultato di ottenere una pace duratura ed evitare il riaccendersi della violenza.
Il peacebuilding si basa sul concetto di “pace positiva” in antitesi a quello di “pace negativa”. Mentre la “pace negativa” si concretizza nell’eliminazione o il contenimento della violenza diretta per effetto del peacekeeping o il peacemaking, la “pace positiva” mira all’eradicazione della violenza strutturale e culturale. I tre tipi di violenza sono interdipendenti e ognuno può trasferire e influenzare gli altri: se non muta la violenza strutturale, perdura la violenza diretta; e ancora, se la violenza culturale diventa istituzionalizzata, la violenza diretta ha libero campo. La “pace positiva” si compie contrastando le cause dell’ingiustizia sociale, la disuguaglianza distributiva e lo sfruttamento selvaggio delle risorse. Non vi è, quindi, sostenibilità se non attraverso un processo di radicale rinnovamento economico, sociale e culturale.
Dunque il peacebuilding è quell’insieme di misure che tendono a minimizzare il rischio di ritorno a un confronto bellico, rafforzando la legittimità e la capacità degli stati di prevenire e gestire le contrapposizioni con soluzioni non militariste e, soprattutto, gettando le basi per istituzioni democratiche, la certezza dell’applicazione della legge, la trasparenza dello stato, la libertà di opinione, la partecipazione civile senza discriminazione, e un progresso inclusivo e sostenibile. Si tratta di un approccio comprensivo che si indirizza a rimuovere il differenziale tra sviluppo potenziale ed effettivo, che sfocia in possibilità di vita diseguali, in quanto gli attriti spesso nascono quando persone e comunità sono condizionate in modo da non poter soddisfare i propri bisogni e aspirazioni, e realizzare sé stesse.
Data la natura complessa delle guerre in corso, il primato del peacemaking e del peacekeeping, con cui, ad esempio, sono nate le missioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, è da tempo decaduto. L’esperienza ha, infatti, mostrato che se dispiegati singolarmente o univocamente non forniscono risposte adeguate a garantire una risoluzione definitiva dei conflitti.