Erdogan, il “presiltano”. Donelli, ‘Gioca sulla pelle dei curdi, ma non gli sono tutti contro’

a cura di Gianluca Vivacqua

Scomparso in modo traumatico Saddam Hussein (da uomo “molto traumatizzante” qual era, cfr. la celebre biografia di Magdi Allam), azzoppato dalle sue vicissitudini politiche Benjamin Netanyahu e praticamente “commissariato” dalla Russia Bashar al-Assad, tiranno succeduto in Siria all’ancor più tirannico padre Hafiz, l’ultimo vero uomo forte del Medio Oriente e l’unico in grado di reggere il confronto e in prospettiva,anche uno scontro con zar Putin e i sovrani arabi, resta lui, Recep Tayyip Erdogan. L’ex sindaco di Istanbul poi divenuto primo ministro e quindi inossidabile presidente della Turchia dal 2014. A mettere il turbo alla sua carriera politica furono, paradossalmente, i quattro mesi di carcere scontati nel 1998 per incitamento all’odio religioso. Roba da Hitler, ma non diciamolo troppo in giro: anche se non aveva sotto il braccio la minuta di un suo personale Mein Kampf, Erdogan usciva di galera con lo spirito giusto per gettare il seme di quello che da lì a pochi anni sarebbe diventato il suo partito, l’AKP, volano di un’irresistibile ascesa. Qualcosa in meno di un caudillo, qualcosa in più di un rais: certamente in stile Saddam, un cui sconfinamento ai danni di qualche viciniore (Iran del 1980 e Kuwait del 1990 docent) gli sarebbe costato nell’immediato un prezzo molto più alto di quello che oggi gli tocca per la spericolata campagna di sicurezza siriana. Ma allora chi è veramente l’undicesimo diadoco di Atatürk? Lo abbiamo chiesto a Federico Donelli, esperto di Turchia e politica turca. È assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Genova, dove insegna History and Politics of the Middle East, e Research Fellow presso il Center for Modern Turkish Studies della Şehir University di Istanbul, dove ha insegnato Comparative Foreign Policy of the Middle Eastern States.E nel suo ultimo lavoro, “Sovranismo islamico. Erdogan e il ritorno della ‘Grande’ Turchia”, pubblicato da Luiss University Press nel 2019, si occupa proprio della politica erdoganiana.

– Prof. Donelli, in che senso Erdogan può considerarsi l’ultimo sultano, sia in politica interna che in politica estera, e che cosa si intende precisamente per neo-ottomanesimo, l’etichetta spesso applicata alla politica del presidente?
“Personalmente non condivido la retorica di parte della stampa occidentale che tende a presentare Erdogan come un moderno sultano ottomano. Trovo che sia una lettura del personaggio e del suo percorso politico molto semplificata e caricaturizzata. Aiuta a vendere qualche copia in più ma non a comprendere il fenomeno Erdogan nella sua totalità e complessità. Senza ombra di dubbio la narrazione dello stesso Presidente turco rimanda molto alla storia ottomana, ai fasti imperiali, ma lo fa in maniera strumentale, ossia finalizzata ad alimentare un’identità differente rispetto a quella turca kemalista che abbiamo conosciuto durante i primi cinquanta e sessant’anni della Repubblica nonché a consolidare la propria immagine di guida e capo popolo. In un processo avviato nel corso dell’ultimo decennio il leader turco, simultaneamente alla stretta di potere sulle istituzioni, ha iniziato a porre la propria figura di leader politico in linea di continuità con i grandi sultani e capi turchi del passato. Quanto al neo-ottomanesimo, anche in questo caso si potrebbero fare le stesse osservazioni; si può parlare di retorica e narrazione neo-ottomana che ha accompagnato e in parte accompagna tuttora un tentativo di acquisizione di influenza regionale in quelle aree un tempo sotto controllo ottomano, ma un’agenda neo-ottomana vera e propria in termini di espansione “neo-imperiale” non è mai esistita e non esiste. Nel primo decennio AKP, l’enfasi posta sul recupero del passato ottomano in quanto retaggio comune con i popoli delle regioni nelle quali la Turchia stava provando ad aprirsi (Medio Oriente e Balcani), spinse molti osservatori ad etichettare la nuova politica estera turca come neo-ottomana. Da notare come la rapida uscita di scena del demiurgo della politica estera regionale, l’AKP Ahmet Davutoglu, nel 2015 sia stata accompagnata da un altrettanto rapida diminuzione dei riferimenti al periodo ottomano. Ad oggi la retorica neo-ottomana, nonostante continui ad essere stigmatizzata dalle élite turche, è rintracciabile soprattutto in contesti inaspettati come quello africano, dove il richiamo al passato imperiale serve a marcare la distanza dal passato coloniale di molti stati europei”.

– A quale sultano della Sublime Porta accosterebbe il presidente Erdogan, se le proponessi un giochetto di tipo plutarcheo?
Direi sicuramente Abdülhamid II, che ha regnato sull’Impero tra il 1876 e il 1909, ossia nell’ultima fase del sultanato ottomano. In un momento di profondo declino, quando oramai le potenze europee preparavano i piani di spartizione di ciò che restava del ‘grande malato d’Europa’ e le pulsioni dei tanti nazionalismi presenti in un’entità per sua natura multinazionale mettevano costantemente sotto pressione il governo ottomano: Abdülhamid cercò di opporre resistenza attraverso l’adozione di un’ideologia nuova per l’Impero, il panislamismo interpretato in chiave difensiva. Il sultano recuperò titoli, pratiche e simbologia, accentuando di fatto il carattere islamico dell’Impero e della sua autorità. Il suo regno fu contraddistinto da molte ombre a causa delle violente repressioni delle rivolte bulgare (1876) e dei primi massacri di comunità armene (1895-96). Negli ultimi anni la figura di Abdülhamid ha acquisito popolarità tra i turchi e non solo grazie ad una famosa serie televisiva, ‘Payitaht’, che ne ripercorre la vita. La serie televisiva è ambientata in un tempo passato, ma con chiari rimandi all’attualità che riflettono l’irrazionale identificazione di Erdogan a figure del passato ottomano. Nello specifico Erdogan guarda la figura di Abdülhamid per ovvie ragioni di narrazione domestica. L’attuale presidente della Repubblica, al pari del sultano ottomano, si sente accerchiato da forze esterne ed interne che minacciano la sua autorità e la sicurezza del paese”.

– Quali sono le radici ottomane del conflitto curdo-turco e come e perché esso si è aggravato dopo la caduta dell’Impero dei sultani?
Ritengo che le radici del conflitto curdo-turco siano tutt’altro che ottomane. Sotto l’Impero le aree del nord e sud est dell’Anatolia erano popolate da comunità curde organizzate in strutture claniche e tribali. Situati in un’area strategicamente di grande rilevanza poiché di confine con l’Impero safavide, il grande rivale musulmano (sciita) degli ottomani (sunniti), e successivamente con l’Impero russo, le popolazioni curde diventarono un alleato nonché una componente assai utile in virtù della porosità delle zone di frontiera. Ai sultani interessava unicamente la lealtà nei loro confronti e i curdi, come molti altri gruppi etnici presenti nell’Impero, la garantirono per diversi secoli. L’élite ottomana con l’emergere dei nazionalismi introdusse l’ottomanismo nella speranza di disinnescare le spinte centrifughe e, fino al 1909 non adottò mai una ideologia di chiara matrice nazionalista turca. Di conseguenza, i curdi all’interno dell’Impero non dovettero fronteggiare alcuna negazione della propria identità. L’area a maggioranza curda, terra compresa tra porzioni degli attuali stati di Turchia, Iraq, Siria e Iran, identificava la patria ancestrale del popolo curdo ed era spesso chiamata Kurdistan. Nel XIX secolo, a seguito di una delle tante riforme amministrative promosse da Costantinopoli, il nome Kurdistan venne per un breve periodo assegnato ad una provincia nel sud-est anatolico. Nello stesso periodo ci furono diverse rivolte capeggiate dai capi villaggio curdi. Le sollevazioni non erano dettate da motivazioni etnico nazionali ma legate al timore che il processo di centralizzazione voluto dal governo ottomano comportasse la perdita dei privilegi e della posizione sociale di cui godevano. Durante la guerra di indipendenza turca (1919/22) i curdi combatterono al fianco dei turchi guidati da Mustafa Kemal. Alla base della loro scelta di schierarsi al fianco dei turchi vi era la volontà dichiarata di preservare il califfato ottomano. L’evento spartiacque nei rapporti tra curdi e turchi fu dunque la proclamazione della Repubblica nel 1923, seguito dall’abolizione del califfato (1924) e dall’avvio del processo di assimilazione identitaria imposto dall’alto dall’autorità. A differenza dell’Impero multietnico, la Turchia divenne uno Stato nazionale che non riconosceva altra identità se non quella turca. Il processo di nation-building fu violento. Di fronte a scelte dispotiche e all’intolleranza delle politiche promosse dalla giovane Repubblica, nel 1925 si ebbe il primo episodio di ribellione, guidata dallo Sheikh Said. Represse brutalmente dalle forze militari turche, le rivolte presentarono un aspetto di indubbio interesse, ossia che le rivendicazioni dei curdi fossero finalizzate non al conseguimento di una autonomia politica, come era stato preventivato nel Trattato di Sevres, bensì al ripristino dell’istituzione califfale, abolita da Mustafa Kemal nel 1924″.

– Con Erdogan e con la sua “repressione permanente” (portata, cioè, anche al di fuori dei confini turchi) a che stadio pensa sia giunto questo conflitto?
“Credo che sia necessario fare una precisazione. Personalmente non credo alla chiave interpretativa di uno scontro totale tra turchi e curdi. La repressione interna al paese, accentuata dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016, non coinvolge solamente i cittadini turchi di etnia curda ma anche altri – giornalisti, universitari, attivisti, artisti, politici – rei di manifestare dissenso nei confronti delle politiche governative. Allo stesso tempo occorre evitare l’errore molto comune di considerare le componenti curde presenti in Turchia come un blocco monolitico, quando invece al loro interno sono presenti posizioni e vissuti fortemente contrastanti. Ci sono curdi che si ritrovano maggiormente nell’agenda politica promossa negli ultimi due decenni da Erdogan e dal suo partito rispetto a quanto non si sentano affini alla lotta armata del PKK. Rimanendo all’interno dei confini turchi, il fallimento (2015) del difficile percorso di normalizzazione e pacificazione tra il PKK, unanimemente riconosciuto come organizzazione terroristica (anche da US e EU), e il governo turco ha riportato le lancette del tempo indietro di oltre vent’anni, ossia alla prima insurrezione dell’organizzazione di matrice marxista-leninista nelle province del sud est anatolico. In quelle stesse zone si la situazione è molto critica, e si vive in una condizione di guerra civile ‘celata’, con coprifuochi, guerriglia urbana e arresti sommari. A farne le spese, come sempre, è la popolazione civile, stretta in una morsa tra il PKK e i capi villaggio da una parte e lo Stato turco dall’altra. L’ultima svolta di Erdogan presenta molteplici risvolti di politica interna, e in particolare la volontà di aumentare i consensi tra i nazionalisti turchi (MHP), il tutto sulla pelle dei curdi.
Spostandoci invece nella vicina Siria, nonostante la narrazione turca tenda a raggruppare i curdi siriani sotto la bandiera dello YPG, considerato dalle autorità di Ankara costola del PKK, sarebbe un errore guardare ai curdi siriani come ad un unico gruppo. Lo YPG, infatti, costituisce una delle milizie convogliate nel SDF dai cui successi ottenuti nel contrasto all’avanzata Isis è nato il Consiglio Democratico Siriano (MSD), ossia il corpo politico dei curdi siriani ma non solo, vi partecipano anche componenti arabe, siriane e turcomanne, che in questi ultimi cinque anni ha amministrato il nord-est della Siria e i cantoni che compongono il Rojava dove viene sperimentato il confederalismo democratico. Qui ritengo che molto passi dai futuri sviluppi della guerra civile e dal quanto mai probabile consolidamento del potere di al-Assad. In tal caso la Turchia potrebbe ottenere la famosa zona cuscinetto più diverse garanzie, tanto da Damasco quanto da Mosca, di un controllo sui confini e sui rapporti tra curdi siriani e guerriglieri PKK. Una soluzione figlia delle politiche errate condotte da Ankara a partire dallo scoppio delle proteste in Siria nel 2011 e che, forse inaspettatamente fino a qualche mese fa, consegna alla stessa Siria e, indirettamente a Russia ed Iran, una leva di potere e ricatto nei confronti della Turchia che si ritrova quanto mai vulnerabile”
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