Il delitto Matteotti e il delitto Khashoggi

Un’analisi comparativa.

di Gianluca Vivacqua

Il 24 ottobre scorso il New York Times ha paragonato il delitto Kashoggi a quello Matteotti. Il quotidiano americano, una delle testate più appassionate alla vicenda, precisava che l’accostamento era istituito in base ad un aspetto preciso: proprio come fece il regime fascista dopo il 10 giugno 1924, così anche la monarchia saudita dal 2 ottobre 2018 ha tentato di convincere l’opinione pubblica che il fatto di sangue era solo l’iniziativa di un pugno di “teste calde”, e pertanto priva dell’avallo dei piani alti.
Se guardiamo nello specifico il caso del deputato socialista, com’è noto circa sette mesi dopo il delitto (3 gennaio 1925) Mussolini, di cui già da più parti si sospettava un coinvolgimento più o meno diretto, si assunse alla Camera la responsabilità di aver creato il clima propizio per la consumazione di quel misfatto. Nella vicenda del giornalista saudita invece non è ancora possibile registrare un’ammissione simile da parte dei vertici del governo di Riad, che proprio come a suo tempo il leader fascista sotto più punti di vista in realtà non appaiono del tutto estranee all’accaduto.
Certo, per quel che riguarda Khashoggi non sono ancora passati così tanti mesi dal compimento del delitto. Però è proprio sul versante delle tempistiche relative al chiarimento del quadro che si pone la differenza fondamentale tra i due casi: in fondo, della sorte effettiva di Matteotti non si seppe nulla di preciso dal giorno della sua sparizione, che abbiamo detto esser datata 10 giugno 1924, fino alla seconda metà di agosto, quando la salma del deputato fu ritrovata fortuitamente da un carabiniere nei dintorni di Roma. C’era sì il sentore, specie da parte dei giornali dell’opposizione, che il deputato fosse stato assassinato, ma di sicuro non si apprese nel giro di poche ore che era stato pestato a cielo aperto, e dopo poco ucciso durante un trasporto forzato in automobile. Si arrivò poi al 12 settembre, il giorno dei funerali, a cui seguirono circa tre mesi in cui la tenuta del potere da parte di Mussolini sembrò seriamente barcollare. Al contrario il dubbio che Khashoggi non fosse morto e barbaramente torturato dentro il consolato saudita ad Istanbul ce lo siamo tolti abbastanza presto: il 19 ottobre era lo stesso governo saudita a confermare che fatale al giornalista fu un “diverbio” dentro la sede diplomatica del regno wahhabita. Non è mai esistito – se non per pochissimi giorni – un giallo sulla sorte del corrispondente del Washington Post sgradito al principe ereditario Mohammed bin Salman; in compenso, però, resta e probabilmente resterà più di un’incongruenza sulla ricostruzione delle dinamiche raccapriccianti del suo omicidio. Ad oggi sappiamo per esempio che il New York Times ha parlato quasi subito di un corpo smembrato con una motosega, mentre il consigliere di Erdogan il 3 novembre ha sostenuto che il giornalista dissidente potrebbe essere stato sciolto nell’acido; soltanto alcuni giorni prima, il 24 ottobre, la polizia turca seguiva tutt’altra pista e aveva chiesto il permesso all’Arabia Saudita di ispezionare i pozzi del consolato di Riad ad Istanbul: l’idea era che il corpo di Khashoggi potesse essere stato gettato in uno di essi. Tuttavia, al di là di queste versioni difformi circa le modalità dell’omicidio, ciò che conta rilevare è questo: nel caso Matteotti all’inizio si brancolava nel buio sia sul fronte dello svolgimento dei fatti che su quello della regia dietro di essi. In quello di Khashoggi, invece il versante veramente oscuro è quello dei mandanti, fermo restando che, come vuole il New York Times, l’Amerigo Dumini della situazione dovrebbe essere Maher Abdulaziz Mutreb, il misterioso 007 che condusse l’interrogatorio preliminare all’esecuzione. I vari Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo sono invece idealmente compresi nel team di altri 15 sauditi che coadiuvarono Mutreb nell’interrogatorio e nelle operazioni successive ad esso.
Un ulteriore capitolo sarà naturalmente quello relativo alla questione del movente. Sotto questo profilo bisogna ammettere che anche il caso Matteotti, a distanza di novantaquattro anni, è ben lungi dal non presentare più problematicità.