L’attacco dell’Isis-K a Kabul: i talebani e la minaccia del terrorismo

Gli scenari del G20 per un multilateralismo inclusivo.

di Maurizio Delli Santi * –

Nonostante le fonti ufficiali confermino che gli attacchi suicidi a Kabul sono stati compiuti dai miliziani dell’Isis del Khorasan, per comprenderne il significato e le prospettive che si vanno prefigurando è necessaria un’analisi di contesto sufficientemente articolata sui vari attori che compaiono sullo scenario afghano.
L’Isis-K, l’Islamic State Khorasan Province o Iskp, conterebbe circa un migliaio di terroristi, tra cui figurerebbero ex talebani, elementi allontanatisi dalle forze governative arrese ed anche pakistani, e sembra perseguire l’idea di una Provincia del Califfato nel “Grande Khorasan”, un’area che storicamente include anche territori del Pakistan, dell’Iran e delle vicine repubbliche asiatiche ex sovietiche. L’Iskp è pienamente inserito nel network dell’Isis, che persegue il disegno del Califfato globale e la leadership del jihadismo ad oltranza contro l’occidente.
In Afghanistan risultano censiti almeno 11 gruppi terroristici, che comprendono oltre all’Isis del Khorasan, anche al-Qaeda e nuclei dei diversi gruppi etnici delle contigue ex repubbliche sovietiche, nonché alcuni riconducibili agli afghani sciiti. Sino agli attentati di Kabul non è stata abbastanza compresa la profonda frattura, nonostante le comuni matrici sunnite, che divide i talebani e l’Isis, e quest’ultimo ora si vede minacciato da una possibile supremazia dei talebani sulla umma islamica, come sembra emergere dai numerosi messaggi di sostegno che agli studenti di Kabul sono pervenuti non solo da al-Qaeda ma anche dai gruppi islamisti dell’indo-pacifico come Jaemaah Islamiya e dallo stesso Partito Islamico della Malaysia.
Al-Naba, organo ufficiale dell’Isis, è arrivato quindi ad accusare i talebani di essere “agenti degli Stati Uniti”, una sorta di quinta colonna del nemico occidente, e che con gli accordi di Doha in realtà gli studenti barbuti avrebbero concordato segretamente con gli americani la conquista del paese. Un argomento forte di questa tesi è rappresentato dalla circostanza che uno dei principali capi politici dei talebani, il mullah Baradar, dopo aver trascorso otto anni di prigione in Pakistan è stato liberato su diretta richiesta degli Stati Uniti affinché conducesse la trattative di Doha. Una differenza ideologica dei due movimenti si coglie anche nella stessa distinzione delle nozioni di Califfato dell’Isis, che prefigura una estensione ultranazionale, e di Emirato dei talebani, che definisce un ambito nazionale più specifico.
La contrapposizione tra talebani e miliziani dell’Isis è poi emersa in maniera netta il 15 agosto durante la presa di Kabul quando gli studenti coranici, presa d’assalto la prigione di Pul-i-Charki, hanno liberato 5mila reclusi giustiziandone solo uno, Abu Omar Khorasari, uno dei capi dell’Isis afghano catturato un anno fa dalla polizia del governo Ghani.
Gli attacchi dell’Iskp nell’area dell’aeroporto di Kabul sono dunque rivolti simbolicamente contro l’intesa raggiunta tra Stati Uniti e talebani.
È opportuno fare anche un punto sui rapporti dei talebani con Al Qaeda, che risalgono ai tempi del sostegno concesso a Bin Laden. Gilles Kepel ha letto questo legame non già come piena adesione al jihad ad oltranza contro l’Occidente, ma come fine “interno” per sfruttarne la minaccia al fine di ottenere il governo dell’Afghanistan allontanando gli “invasori” occidentali.
In definitiva, dopo gli attacchi di Kabul i talebani potrebbero reagire contro l’Iskp, ma anche convincersi che per ottenere la stabilità nell’area hanno sempre più bisogno del sostegno della comunità internazionale, che a questo punto potrà chiedere maggiori garanzie per il sistema dei diritti e i corridoi umanitari. La conferma di tale prospettiva giunge dalla più recente notizia di una richiesta dei talebani rivolta alla Turchia di intervenire a loro sostegno nel controllo dell’aeroporto di Kabul. È evidente che sulla scelta ha inciso l’affinità con un paese musulmano, prevalentemente sunnita, ma anche la ragionevole considerazione che la Turchia è un Paese che, pur considerando le mire egemoniche di Erdogan, può esprimere una forza militare efficiente, peraltro prontamente disponibile e formalmente inserita nella alleanza euroatlantica. Europei e americani potranno storcere il naso, ma considerata la situazione è forse un bene che qualcun altro scenda in campo per contrastare la minaccia del terrorismo che potrebbe anche deflagrare in una rincorsa alla leadership jihadista da parte dei vari gruppi presenti in Afghanistan. E occorrerà vedere anche cosa potranno fare Russia e Cina che hanno tutto l’interesse, specie per gli approvvigionamenti energetici, i flussi commerciali e le derive separatiste interne, a mitigare l’area di instabilità sul quadrante afghano. Nel frattempo gli Stati Uniti dovranno al proprio interno ricompattarsi per riprendersi dalla catastrofe umanitaria e strategica, e pensare come difendersi da possibili attacchi del jihad globale. E questo mentre l’Ue dovrà preoccuparsi anch’essa della minaccia terrorista ma pure di come gestire la pressione migratoria. In sostanza ancora una volta la situazione conferma che molto probabilmente il polo occidentale Ue-Stati Uniti non potrà gestire la crisi da solo, ma ha necessità di confrontarsi con Russia, Cina, Turchia ed anche con Pakistan, Iran, Arabia Saudita e Qatar, che hanno possibilità di influenzare le scelte sul nuovo Afghanistan: ritorna impellente l’idea di un G20 allargato, in cui dovrà essere protagonista il multilateralismo per gestire in primo luogo la sfida di un nuovo jihad globale.

* Membro dell’International Law Association, autore di “L’ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo”, Aracne, 2016.