di c. Alessandro Mauceri –
In molti paesi, a cominciare da quelli europei e negli Stati Uniti, si fa un gran parlare di emissioni dei veicoli a motore, di efficienza degli elettrodomestici. Inspiegabilmente, però, nessuno fa molto per fermare chi emette sostanze inquinanti in misura migliaia di volte maggiori.
Una delle conseguenze della globalizzazione dei mercati è la necessità di trasportare enormi quantità di materie prime, semilavorati e prodotti finiti in giro per il mondo. La maggior parte di questi prodotti viaggia a bordo di immense nevi cargo che sono alimentate con giganteschi motori che inquinano in modo inimmaginabile.
Il trasporto su queste navi è alla base della globalizzazione. Il motivo sono i costi bassissimi: “conviene spedire i merluzzi pescati nel mar di Scozia in Cina in container refrigerati per essere sfilettati e ridotti a bastoncini in Cina, e poi rimandati ai supermercati e ristoranti di Scozia, piuttosto che pagare retribuire sfilettatori scozzesi”, ha detto Rose George, una giornalista britannica che ha viaggiato 10mila chilometri fino a Singapore a bordo di una di queste porta container lunga 300 metri e manovrata da solo 20 uomini. E che, sbarcata, ha scritto un libro chiamato “Novanta per cento di tutto – Dentro l’industria invisibile che ti porta i vestiti che indossi, la benzina nella tua auto e il cibo nel tuo piatto”. (Ninety Percent of Everything: Inside Shipping, the Invisible Industry That Puts Clothes on Your Back, Gas in Your Car, and Food on Your Plate). Secondo Rose George, il 90 per cento di ciò che ci occorre e che acquistiamo, viaggia sulle portacontainers.
Il motivo di questa “convenienza” è legato al combustibile utilizzato, il cosiddetto petrolio “bunker”, ovvero quello che rimane dopo aver raffinato gli altri prodotti petroliferi come benzina, nafta o diesel per autotrazione. Per questo alcuni lo hanno chiamato “il sangue impuro della mondializzazione”. Si tratta di un prodotto estremamente inquinante perché ci si trovano residui di metallo, cenere e, soprattutto, zolfo. È un carburante così viscoso che prima di bruciarlo negli enormi motori dei cargo è necessario riscaldarlo. Gli enormi cargo portacontainer lo utilizzano perché nonostante sia uno dei più sporchi al mondo, è anche uno dei meno costosi, cosa questa che permette di assicurare al commercio mondiale i costi minori.
Da anni si cerca di risolvere questo problema, ma inutilmente. Nel 1997 è stato adottato uno standard del 4,5% massimo di zolfo, abbassato al 3,5% nel 2012. Nel 2008, intanto, l’Organizzazione marittima internazionale, OMI, aveva proposto un accordo che prevedeva una limitazione dello 0,5%, ma sulla data di applicazione non è stato trovato un accordo fino ad ottobre 2016. Alla fine dello scorso anno, a Londra, l’OMI, organo delle Nazioni Unite, ha adottato una risoluzione per ridurre ulteriormente il livello massimo di zolfo da 3,5% a 0,5% a partire dal 2020. “Per l’industria marina questa è la prima volta che vengono adottate delle norme sull’inquinamento atmosferico che avranno un vero effetto” ha detto si felicita Bill Hemmings, dell’associazione Transport&Environnment.
Ma i dubbi sugli effetti di questa misura sono molti. Le emissioni restano comunque spaventosamente elevate: una sola grande nave porta container può inquinare quanto milioni di automobili. E di queste navi nei mari del pianeta ne circolano migliaia.
Per l’ambiente le conseguenze sono evidenti ma anche per la popolazione il pericolo è concreto: le navi non si accontentano di emettere i loro inquinanti in mezzo agli oceani. La gran parte del traffico passa vicino alle coste, e le particelle fini possono essere trasportate a centinaia di chilometri dai venti.
Particolarmente grave la situazione in prossimità dei grandi porti commerciali e turistici. In alcune aree portuali in Nord America e nel Nord Europa i cleaner fuels sono ormai obbligatori. E molto presto anche la Cina dovrà adeguarsi. La situazione è peggiore a Shenzen, dove l’industria marittima produce i due terzi delle emissioni di ossido di zolfo. Il governo cinese, ha da anni dichiarato d voler invertite rotta e di voler ridurre le emissioni. Ma solo pochi porti hanno messo in atto politiche volte a mitigare le emissioni inquinanti. A Hong Kong si sta pensando di imporre alle navi transoceaniche di passare all’utilizzo di combustibile pulito quando attraccano in porto. Un palliativo che non risolve il problema alla radice: una nave commerciale può arrivare a inquinare più di mezzo milioni di camion cinesi di ultima generazione.
A Venezia, secondo gli ambientalisti, il passaggio di decine e decine di navi causa emissioni di fumo pari agli scarichi di 14mila automobili; non è un caso se la procura della Repubblica di Venezia ha aperto un fascicolo sui fumi emessi dai “giganti del mare”, mentre Vtp Venezia Terminal Passeggeri e Autorità Portuale indicano sulla base di altri studi che il livello di inquinamento negli anni è diminuito.
Nel mar Baltico, il mare del Nord e la Manica, il limite di emissioni è stato portato allo 0,1%. Ma manca ancora una normativa che vieta l’uso di questi combustibili tremendamente inquinanti su tutto il pianeta.
Blande le giustificazioni addotte dalle società proprietarie delle navi cargo. Per loro l’argomento chiave è che non c’è abbastanza carburante che risponda alle nuove norme per rifornire le quasi 50mila navi commerciali del pianeta. La verità è un’altra: se si inquina è prima di tutto per una questione di costi. I carburanti puliti costano almeno il 48% in più rispetto ai combustibili tradizionali. Per non parlare dei costi che comporterebbe la conversione a combustibili meno inquinanti: “Per produrre abbastanza carburante di questo tipo, le raffinerie hanno bisogno di fare molti investimenti”, ha detto l’ambasciatore di uno dei Paesi occidentali dell’OMI. Ma non basta nuovi carburanti significa anche nuovi impianti di stoccaggio. Sono molti i paesi emergenti (tra cui Russia, Brasile, Thailandia e India) che hanno presentato obiezioni e chiesto un termine più lungo per aderire alla scadenza dell’OMI.
Ma molti colossi del mare (alcuni sono lunghi centinaia di metri) battono bandiera di paesi che non hanno mai riconosciuto questi accordi. È quanto è emerso da una inchiesta di France 5, “Cargos, la face cachée du Fret” (Cargo, la faccia nascosta del trasporto marittimo). Appartengono alla Liberia, alle Isole Marshall, a Tonga a Vanuatu, e persino alla Mongolia, che non ha sbocco a nessun mare, ma offre condizioni di favore agli armatori globali. Tutto pur di non essere costretti a rispettare norme restrittive sulla nazionalità dei marinai, sulle leggi sul lavoro, sugli obblighi salariali ed sulle assicurazioni infortunistiche e sanitarie. E ovviamente sui carburanti adoperati e sulle emissioni in atmosfera.
Le ripercussioni di questo modo di gestire il problema potrebbero essere notevoli: basti pensare che le emissioni di CO2 rappresentano solo il 2% delle emissioni mondiali. L’adozione di nuove norme sull’inquinamento da zolfo potrebbe essere un altro piccolo passo nella lotta contro l’inquinamento. Specie considerando che, secondo alcuni calcoli, 20 di queste navi porta container inquinano come tutte le automobili del pianeta. Basterebbe ridurre dello 0,35 per cento il traffico navale (o le emissioni) per ottenere lo stesso risultato della riconversione globale all’auto elettrica sotto il profilo dell’inquinamento del pianeta. Ma di questo problema nessuno parla. Non se ne è parlato a Kyoto o tanto meno a Parigi o a Marrakech.
L’economista Mark Levinson, autore di The Box: How the Shipping Container Made the World Smaller and the World Economy Bigger, sull’uso dei containers ha detto che “la gente crede che la globalizzazione sia dovuta alla disparità dei salari, che provoca la delocalizzazione della produzione in Asia o dovunque la manodopera è meno cara. Errore: la disparità di salari esisteva anche prima della mondializzazione. Quello che permette lo sfruttamento della manodopera a basso costo per fare prodotti da vendere poi sui mercati di alto reddito, è l’abbassamento tremendo dei costi di trasporto navale. Questo è il fattore cruciale, reso possibile dai containers e dalle mega-cargo, che riducono il costo all’osso”.
Ma l’uso di questi mezzi di trasporto comporta un costo per l’ambiente e per la salute delle persone che solo pochi conoscono.