Non si può occidentalizzare il mondo

di Giovanni Ciprotti

Tra le letture per l’estate ho casualmente inserito due libri: “Arcana imperii. Guerra fredda e geopolitica: George Kennan da Stalin a Putin”, di Luigi Grassia e “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, di Samuel Huntington.
Il primo libro, pubblicato nel 2020, è dedicato al pensiero politico di George Kennan, il diplomatico americano che tra il 1946 e il 1947 teorizzò la strategia del “contenimento”, che sebbene adattata nel tempo ha successivamente condizionato la politica estera degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica.
Il secondo, edito nel 1996, offriva un’interpretazione del mondo post guerra fredda, nel quale ai conflitti su base ideologica del mondo bipolare si sarebbero sostituiti conflitti di tipo diverso: “lo scontro di ideologie sviluppatosi nell’ambito della civiltà occidentale sta lasciando il posto a uno scontro di culture e di religioni tra civiltà diverse” (Huntington, p. 65).
La riconquista del potere da parte dei talebani in Afghanistan certifica il fallimento della strategia che l’occidente ha messo in atto in quell’area negli ultimi vent’anni e impone un radicale cambio di atteggiamento nello scacchiere mediorientale. La rilettura del pensiero di Kennan e Huntington potrebbe aiutare in questa metamorfosi obbligata.
Negli ultimi giorni di agosto ciascun paese è stato impegnato prevalentemente nella protezione e nel rimpatrio dei propri connazionali che si trovavano in Afghanistan ed è ancora troppo presto per prevedere i futuri sviluppi. Le prime questioni da affrontare, per le cancellerie occidentali, sembrano essere la preoccupazione (soprattutto europea) per il prevedibile flusso di profughi, l’eventuale riconoscimento formale del regime talebano e la tutela dei diritti umani del popolo afgano.
Gli occidentali hanno tutto il diritto alla propria concezione dei diritti umani, civili e politici, ma non possono pretendere che paesi di altre civiltà dimostrino la stessa sensibilità. Secondo Huntington, le modalità con cui l’occidente cercava di imporre al resto del mondo la propria visione dei diritti delle persone venivano percepite nei paesi non occidentali come una forma di “imperialismo dei diritti umani” [Huntington, p. 284].
Lo stile di vita che i nuovi padroni dell’Afghanistan intendono imporre ai propri connazionali è inaccettabile dalla prospettiva occidentale, ma oltre a dispiacersi per le conseguenze del ritorno dei talebani varrebbe la pena ricordare come è iniziata questa vicenda, nel 2001: con la decisione degli Stati Uniti di invadere l’Afghanistan governato dai talebani, colpevoli di aver protetto, o quanto meno non perseguito, i terroristi islamici che avevano distrutto le Torri Gemelle. All’obiettivo principale, punire i terroristi, si aggiunse immediatamente quello di provocare un cambio di regime a Kabul.
La “guerra al terrorismo” dichiarata allora da George Bush jr. e il parallelo obiettivo di “esportare la democrazia” hanno trascinato gli Usa e i loro alleati nel pantano afgano, al quale si sarebbe presto aggiunto quello iracheno. A Kabul e a Baghdad la vittoria sul campo per l’occupazione del territorio è stata fulminea. Il bilancio di un ventennio di presenza militare nella regione non è stato esaltante: intensificazione degli attacchi terroristici, contro le forze di occupazione ma anche contro la popolazione musulmana; indebolimento di al-Qaeda, purtroppo largamente controbilanciato dalla nascita e dallo sviluppo dell’ISIS; instaurazione di governi filo-occidentali ma poco rappresentativi delle dinamiche e dei rapporti di forza tra le tribù e i clan locali.
Nel 1966, durante un’audizione in Commissione affari esteri del Senato americano in merito alla guerra in Vietnam, Kennan dichiarò: “Gli americani non sono in grado di determinare la politica interna di un paese orientandola in una direzione che sono soltanto loro a desiderare” (Grassia, p. 88). In Afghanistan sembra essere accaduto proprio questo. In un articolo pubblicato il 26 agosto scorso dal Corriere della Sera, Henry Kissinger sintetizzava così la gestione statunitense: “La costruzione di una nazione, in un Paese dilaniato dalla guerra, ha richiesto un ingente spiegamento di mezzi militari. I talebani sono stati tenuti sotto controllo, ma non eliminati. L’introduzione di forme di governo inconsuete, d’altro canto, ha indebolito l’impegno politico e incoraggiato la corruzione già dilagante”.
Per l’occidente non sarà facile trovare trovare un nuovo equilibrio nelle relazioni con i nuovi detentori del potere a Kabul, ma si tratta di un passaggio inevitabile.
L’approccio unilaterale statunitense che ha prevalso dalla fine degli anni ’90 in poi (il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine usava a quel tempo il termine “iperpotenza” per indicare gli Usa) dovrebbe lasciare il posto ad una politica di concertazione tra gli Usa e le altre potenze regionali.
Huntington immaginava un mondo multipolare basato su alcune grandi civiltà: africana, buddista, cinese, giapponese, indù, islamica, latinoamericana, occidentale, ortodossa.
In quasi ogni civiltà sono presenti stati che godono di un prestigio particolare (Huntington li definiva “stati guida”) e che possono far pesare la propria influenza per facilitare l’individuazione di una soluzione ad un conflitto o ad un contrasto prima che sfoci in un conflitto aperto sia in caso di scontri tra paesi appartenenti alla medesima civiltà sia quando i contendenti appartengono a civiltà diverse. Nel secondo caso l’opera di mediazione dovrebbe essere svolta almeno dagli stati-guida di riferimento di ciascuna delle civiltà coinvolte.
La civiltà islamica costituisce da questo punto di vista un’eccezione poiché non sono presenti stati-guida (ci sono alcuni paesi, come l’Arabia Saudita, l’Iran e la Turchia, che aspirano a guidare la civiltà musulmana, ma nessuno è riuscito sinora ad imporre la propria leadership) e la ricerca della soluzione è più complessa. L’intervento di stati-guida di altre civiltà potrebbe ottenere risultati positivi, purché non si tratti dell’intervento di un unico stato-guida esterno alla civiltà islamica e meno che mai si tratti di uno stato-guida occidentale, perché “l’Occidente conquistò il mondo non grazie alla forza delle proprie idee, dei propri valori o della propria religione (ai quali ben pochi esponenti delle altre civiltà furono convertiti), ma in virtù della superiore capacità di scatenare violenza organizzata. Gli occidentali dimenticano spesso tale circostanza; i non occidentali non la dimenticano mai” (Huntington, p. 62). Sarebbe quindi necessario coinvolgere almeno gli stati-guida delle altre civiltà (ad esempio Cina e Russia, ma anche alcuni dei paesi musulmani più influenti, come Iran e Turchia) per tentare di individuare una soluzione condivisa e convincere o costringere i paesi o le fazioni in lotta a sedersi intorno a un tavolo.
Kennan, secondo la sintesi fornita da Luigi Grassia, “ha sempre affermato la necessità di negoziare fra nemici su temi vitali senza subordinare la trattativa ad altri dossier, di non spezzare mai il filo della diplomazia, di accettare l’Unione Sovietica così com’era, come dato di fatto, senza deplorarne l’esistenza e senza cercare di cambiarne il regime, e soprattutto senza scadere in manifestazioni di ostilità istrionica” [Grassia, p. 14]. Più o meno lo stesso concetto è stato espresso da Henry Kissinger nel 2014: “dobbiamo sempre ricordare che la Russia è una parte importante del sistema internazionale e quindi è utile per risolvere ogni sorta di crisi, dagli accordi sulla proliferazione nucleare alla Siria. Questo deve prevalere sulla tentazione di escalation tattiche su questioni specifiche” (Grassia, p. 19-20).
Purtroppo negli ultimi anni l’occidente, e in particolare gli Usa, non hanno perso occasione per lanciare strali contro Mosca, Pechino e Teheran. L’amministrazione Trump da questo punto di vista ha sfoggiato un vastissimo repertorio di azioni ostili: sanzioni alla Russia, guerra commerciale alla Cina, rigetto dell’accordo sul nucleare iraniano. Ma anche l’attuale presidente Joe Biden non ha perso tempo, in occasione del primo vertice Nato del giugno scorso, nel definire Cina e Russia una minaccia e chiedere agli alleati occidentali di far fronte comune contro di loro. Partendo da posizioni simili, non è semplice convincere paesi quotidianamente demonizzati a trattare per trovare una soluzione ad una crisi da qualche parte del Medio Oriente, in cui ciascuna delle potenze regionali è portatrice di interessi non sempre compatibili gli uni con gli altri.