Pari e dispari: chi sta con chi nel Mediterraneo?

di Gianvito Pipitone

Quando da piccoli ci si dava appuntamento al campo sportivo, il metodo per comporre le due compagini di sfidanti era sempre lo stesso: pari e dispari. Dopodiché a turno i due capitani sceglievano i componenti della propria squadra che andava così delineandosi fino all’ultima coppia di giocatori disponibili. Inutile dire che i criteri di scelta per il proprio team non si basavano solo sul valore intrinseco dei giocatori, ma spesso tenevano conto di precedenti alleanze, convenienze spicciole, amicizie di lungo corso, compatibilità e non da ultimo, simpatie o antipatie storiche o momentanee.

Non molto diversamente da quanto accade oggi sullo scacchiere internazionale, dove spesso la logica della selezione dei propri alleati è operata tenendo conto di una serie di parametri che sempre più spesso hanno a che fare con l’empatia, con una certo grado di affinità, o vicinanza storica e culturale, oltre che, ça va sans dire, per mera convenienza ed interesse.
Quanto succede nel Mediterraneo orientale negli ultimi anni ha il sapore di una grande sfida lanciata principalmente da due grandi attori regionali che aspirano a diventare potenza: l’esuberanteTurchia da una parte e l’Egitto, con un profilo molto più basso, dall’altra. La posta in palio è il controllo di una vasta porzione di territorio che si dipana attraverso il Mediterraneo orientale.

Che il Canale di Suez fosse di primaria importanza ce ne siamo resi conto a marzo scorso durante l’incidente accaduto alla portacontainer Ever Given, Ever Given, a seguito del quale è rimasto bloccato il transito delle merci per poco più di una settimana, causando di fatto il blackout dei porti di mezzo mondo. In virtù della sua invidiabile posizione geografica il Mediterraneo Orientale è infatti considerato il naturale punto di incontro fra tre continenti: Africa, Asia ed Europa; con tutto quello che questo significa dal punto di vista commerciale, economico, militare e geopolitico.
A questo si aggiunge l’importanza che da qualche anno anno l’area ha cominciato a rivestire come principale snodo energetico. Specie a partire dal 2013, quando sono stati fatti degli importanti ritrovamenti di pozzi di gas naturale: dapprima a sud di Cipro (Aphrodite), poi nelle acque di pertinenza israeliana (Leviathan e Tamar) e soprattutto nel 2015, a 100 km dalla costa egiziana, con la scoperta del più grande pozzo di gas naturale di tutto il Mediterraneo, Zohr, ad opera del colosso dell’energia italiano Eni.

Una serie di ritrovamenti che hanno di fatto cambiato di segno l’economia e la politica economica in queste aree attirando ulteriormente l’interesse degli investitori internazionali. Una rinascita energetica che in breve tempo ha trasformato un paese come Israele da importatore ad esportatore; che ha reso l’Egitto, paese energicamente in costante difficoltà, finalmente autosufficiente; e che potrebbe portare la stessa Cipro a salvarsi da un paventato fallimento.
La congiuntura storica peraltro sembra adesso favorevole dopo il terribile decennio trascorso dall’inizio delle primavere arabe che, se da un lato hanno avuto il merito di aver sgabbiato molti paesi da dittature ormai incistate nel sistema, dall’altro hanno causato una diffusa instabilità, con pericolosi riverberi sul resto del globo.

A differenza di altre primavere finite male, l’Egitto sembra comunque reggere e, seppur al costo di una grave contro-rivoluzione orchestrata nel 2013, che ha portato alla cacciata degli estremisti di Fratellanza Musulmana (Mohammad al-Morsi), è riuscito in questi ultimi anni a riorganizzare lo Stato sotto una sorta di dittatura illuminata di Abdel Fattah al-Sisi.
Alla Libia è finita invece peggio, sprofondata in una crisi dalla quale sembra ancora non essere uscita del tutto. Sorte diversa per la martoriata Siria che, a carissimo prezzo ha comunque mantenuto lo status quo rimanendo ancorata alla guida di Bashar al-Assad, e avendo dovuto fronteggiare fra l’altro sul proprio territorio lo smantellamento del Califfato di matrice Isis.
Inutile dire che in molti casi le scintille appiccate dalle “primavere” sono diventate fiamme sotto il controllo dell’una e dell’altra potenza internazionale, con il preciso intento di destabilizzare l’area per tornaconti e interessi personali. Un braccio di ferro che continua oggi più che mai, specialmente all’indomani del disimpegno Usa nell’area.

Ma chi sta con chi? E per quale interesse? Domande lecite alle quali non è facile rispondere ma che impegnano giornalmente gli analisti esperti dell’area in un continuo gioco di rimandi, simmetrie e corrispondenze.
Partiamo dalla Turchia che concorre per diventare la prima potenza regionale insieme all’Egitto, suo acerrimo nemico. Non è facile stabilire se è la Turchia del “sultano” Recep Tayyp Erdogan che abbia per prima perseguito una politica arrogante e autoritaria, o se è invece la stessa Turchia la vittima preordinata dalla condotta isolazionista dei paesi circostanti, che da qualche anno ormai tendono a relegarla nel suo “splendido isolamento”. Quel che è certo è che la politica estera turca, sintetizzata in un motto, Mavi Vatan, ossia Patria Blu, racchiude in nuce la strategia del potente stato anatolico: una sorta di dichiarazione programmatica di difesa degli interessi nazionali per un diametro ben più ampio della già estesa area della Penisola Anatolica. Una visione di espansione in diverse direttrici, nostalgica del sogno neo-ottomano.

Nei fatti, questo atteggiamento “assertivo” della Turchia ha creato molta diffidenza nell’area coagulandosi nell’opposizione sorta attorno all’altro grande player dell’area, l’Egitto. Non è un mistero che l’Egitto, lo stato più popoloso dell’area, ha in serbo delle velleità geopolitiche in zona e sta spingendo per la realizzazione del gasdotto East Med, una nuova linea che dall’Egitto passando per i nuovi giacimenti della zona Zohr (e inglobando anche i giacimenti importanti nelle acque di pertinenza israeliane oltre che cipriote) porterebbe il gas liquefatto fino in Grecia (e da lì nel cuore dell’Europa), così da escludere artatamente ogni coinvolgimento turco. Il progetto in itinere per altro sta prendendo forma attorno ad un forum internazionale (E.M.G.F.) a cui vengono invitati a partecipare ufficialmente quasi tutte le nazioni dell’area con l’esclusione della Turchia. Una situazione che ovviamente non può andare bene alla Turchia che non può permettersi di avallare la costruzione di un gasdotto sotto il proprio naso senza esserne minimamente coinvolta.

Alla luce di questi movimenti strategici, la Turchia ha così sempre più stretto rapporti con il Qatar, sotto l’abile guida dell’emiro Hamad al-Thani. Basta dare un’occhiata al nuovo skyline di Istambul per rendersi conto del fiume di denaro che corre sull’asse Doha-Ankara, in cambio di una stabile presenza militare di truppe turche sul suolo qatarino.
Alleato della Turchia di tutto altro genere risulta la ricca e potente Bundesrepublik di Germania, il cui suolo ospita almeno un milione di emigrati turchi (la comunità straniera più numerosa sul suolo tedesco), oltre ad essere partner commerciale di ferro della penisola anatolica. E in misura molto minore l’Italia, i cui benefici dell’antico famoso mestiere di coltivare “amicizia con tutti e legami con nessuno” prima o poi finiranno, si spera, oggetto di un grosso dibattito interno alla nostra ondivaga politica estera.

Considerato l’isolamento in cui è stata relegata, la Turchia ha spinto ulteriormente il pedale su una politica di assertività, condotta spesso sopra le righe e a scapito degli interessi dei paesi circostanti. Si ricordano ad esempio nel 2020 una serie di spregiudicate trivellazioni in acque rivendicate da Cipro e dalla Grecia stessa.
Da manuale infine l’intervento turco in Libia. A differenza della Comunità Europea che ha preso sottogamba la guerra in Libia, Ankara ha considerato la questione con estrema serietà e operato le proprie scelte con estremo rigore: sostenendo con forza l’alleanza con il governo di Fayez al-Sarraj Sarraj; trasferendo truppe, know how e soft power a Tripoli; e combattendo e sconfiggendo sul campo l’esercito degli insorti, comandato dal generale Khalifa Haftar, autoproclamatosi nel 2014 signore delle regioni orientali, appoggiato dalla Russia di Putin e nemmeno troppo sottobanco dalla Francia, oltre che dall’Egitto.

A giudicare da come si sono messe le cose di recente, anche in questo caso Erdogan sta per passare all’incasso, potendo adesso contare su una fetta importante di contratti per la ricostruzione del paese nord-africano. Non c’è da stupirsi se fra i primi atti della Turchia dopo il cessate il fuoco della guerra libica, è arrivato puntuale il regolamento dei confini della Zee (Zona economica esclusiva): con cui Ankara ha esteso il controllo e la gestione delle acque comprese fra i due paesi, ben oltre il proprio specchio di pertinenza. Con ciò facendo arrabbiare, e non poco, Atene, che si vede privata di un ampio specchio di acque che considera di propria pertinenza.

La stessa Russia di Putin, che nella guerra libica si è schierata insieme ad Egitto e Francia, con la parte poi risultata perdente del generale Haftar, ha mantenuto comunque un più basso profilo, prestando cura a ritagliarsi una parte dei propri interessi nell’area e di fatto lasciando decretare in Libia un solo vincitore: la Turchia.
Ed è così che in Libia i turchi sembrano ormai destinati a proiettare in un futuro prossimo delle ombre sempre più lunghe, grazie alla loro stabile presenza militare, economica e geopolitica. Un piccolo capolavoro di sfrontatezza e di audacia firmato Ankara.

Tutto questo è avvenuto sotto l’imbarazzante egida della Comunità europea, sempre più imbrigliata nella macchinosa catena decisionale e divisa soprattutto dagli interessi divergenti dei vari Stati che la compongono. La chiosa è tutta per le istituzioni della Comunità europea. Qual è quell’istituzione che da un lato appoggia politicamente una delle parti in causa e dall’altro concede ad alcuni dei suoi membri di derogare dalla propria linea politica, permettendo militarmente di sostenere la fazione opposta? Sembra una follia eppure è successo (con la Francia) e succederà ancora finché la Comunità europea non avrà un’unica voce in campo, univoca e chiara. Fino ad allora, ciascuno delle proprie nazioni farà il bello e il cattivo tempo, relegando di fatto le ambasciate della Commissione europea a poco più che a delle comparsate di facciata e lasciando libertà ai vari stati sovrani di rincorrere ora questi ora quegli altri interessi. In tutto ciò, perdendo di vista il vero obiettivo della questione: la stabilità dell’area che significa in primis sicurezza, fiducia e prosperità per l’Europa intera.
Erdogan e la Turchia hanno ben capito questa idiosincrasia tutta europea e non mancano di sottolinearlo ad ogni pubblica uscita. La farsa della “sedia mancante” (niente di meno che) all’indirizzo del presidente della Commissione Ursula von der Layen durante la visita dei capi delle Istituzioni Europee lo scorso aprile, a vantaggio di telecamere, non solo dimostra l’ irriverente trattamento verso le istituzioni europee, il sessismo e l’autoritarismo da parte di un paese come la Turchia, ma rivela la punta dell’iceberg del problema stesso: mostrando in tutta la sua evanescenza lo scarso peso politico della Comunità europea, il suo discutibile senso della dignità e in definitiva la mancanza di autorevolezza dell’istituzione stessa.