Turchia. Erdogan gioca sulla rivalità tra le grandi potenze. Ma il suo credito è in picchiata

di Dario Rivolta * –

Nell’ormai lontano 1999 la Turchia fu ammessa come “Stato candidato” all’ingresso nell’Unione Europea. Nel 2005, dopo qualche reticenza da parte di alcuni Stati già membri, cominciarono i primi colloqui per l’ammissione. Era da molto tempo che sia da Ankara che da Bruxelles si discuteva l’ipotesi di un ingresso della Turchia nell’Unione Europea, ma occorre ricordare che nel 1993 a Copenaghen il Consiglio Europeo aveva deciso quali sarebbero dovuti essere i criteri di ammissione che qualunque Stato che aspirasse a fare parte dell’Unione doveva rispettare: stabilità delle istituzioni che garantissero la democrazia, uno stato di diritto, rispetto dei diritti umani, protezione delle minoranze e il corretto funzionamento di un’economia di mercato. In cambio, mentre tutte queste condizioni man mano dovevano essere rispettate, l’Europa avrebbe aiutato i processi di riforma necessari con la consulenza e ingenti aiuti finanziari ed economici. Era evidente che la Turchia di allora ancora non rispettava molte delle condizioni giudicate necessarie e si concordò, come da prassi già attuata anche con gli ultimi entrati, una serie di riforme che Ankara avrebbe dovuto attuare in modi e tempi definiti. Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan aveva immediatamente compreso che la prospettiva del processo di avvicinamento avrebbe portato con sé enormi e immediati benefici. Non solo sotto l’aspetto economico, pur importante, ma anche come strumento di politica interna, tra l’altro per disfarsi dell’ingombrante tutela delle Forze Armate turche. La richiesta dell’Europa di un sistema di democrazia civile costituiva per Erdogan un alibi fortissimo, supportato da Bruxelles, per porre fine al ruolo di “Guardiani dello Stato Kemalista” (e laico) che fino a quel momento gli alti vertici dell’esercito avevano mantenuto anche con ripetuti colpi di stato.

Erdogan non ha mai sinceramente creduto di diventare membro dell’Unione, ma per continuare a godere dei benefici previsti e per mettere fuori gioco gli avversari interni, finse di crederci. Uno dopo l’altro fece inventare due processi con l’accusa di tentato colpo di stato (2016), e grazie a quelli riuscì a sostituire tutti i vertici militari con persone a lui fedeli. Fece licenziare professori universitari e giornalisti e colpì perfino i vertici non “allineati” della magistratura. Fino a un certo momento finse anche di voler riconoscere i diritti della minoranza curda prospettando l’autorizzazione all’esistenza di scuole nella loro lingua. Risultato ottenuto: una conquista totale di tutte le posizioni di potere e la graduale reintroduzione dell’islam come religione di stato. Oggi, soprattutto dopo aver fatto approvare (con l’aiuto dei nazionalisti) una nuova Costituzione che estendeva ancora di più i suoi poteri, possiamo tutti costatare che la Turchia di Erdogan non sia certo sulla strada di una maggiore omogeneità con i valori occidentali. Al contrario.

Sistema difensivo S-400. (Foto Ministero della Difesa russo).
La crescita economica che ha accompagnato il suo governo di quegli anni gli ha poi dato una mano a estendere il suo consenso, soprattutto nelle aree anatoliche più arretrate.
In politica estera Ankara è diventata sempre più assertiva e le scelte si sono molto frequentemente dimostrate addirittura contrarie a quelle degli altri membri della Nato (vedi ad es. la guerra del 2003 contro Saddam Hussein, l’acquisto di armamenti russi incompatibili con quelli dell’alleanza, il Turkish Stream, la centrale atomica con la russa Rosatom, l’apertura ai capitali e al vaccino cinesi), di cui pure continua a fare parte.

Tuttavia chi immagina che Erdogan voglia lasciare la Nato per entrare in un’alleanza organica con Russia e Cina commette un errore di prospettiva. Il suo progetto in realtà è quello di perseguire una politica di autonomia strategica che gli consenta di mantenere un piede in entrambi i campi e di giocare sulla rivalità tra le grandi potenze. Sa benissimo che una possibile espulsione dalla Nato non è all’ordine del giorno poiché anche gli Stati Uniti vedono nella Turchia un asse strategico importante per tenere il più possibile sotto controllo la Russia. Per non parlare dell’Europa e della Germania in particolare. Quest’ultima è tenuta sotto scacco dal ricatto sui migranti e dalla forte presenza di una comunità di origine turca cui Erdogan si è indirizzato spregiudicatamente invitando tutti i turchi di Germania a mantenere stretti come valore prioritario i rapporti con la madrepatria. Con Mosca, nonostante abbia raggiunto un accordo (provvisorio) sulla Siria, i motivi di dissidio permangono. Un esempio è il sostegno militare dato all’Azerbaigian nel recente conflitto con l’Armenia. Un altro esempio è il trattato di collaborazione per la difesa e per l’intelligence sottoscritto con Kiev e le ripetute dichiarazioni a favore di una Crimea come parte integrante dell’Ucraina. Un’altra fonte di contrasto, ma la lista non finisce qui, il sostegno al governo di Tripoli contrapposto alle forze di Bengasi del generale Haftar, sostenuto da Mosca. Anche la presenza in Kossovo (contro la Serbia), in Albania, in Sudan, e nelle Repubbliche turcofone in Asia centrale è l’evidenza di un desiderio d’influenza spesso alternativo alle ambizioni strategiche russe.

Gli Usa avevano cercato di richiamare Ankara all’ordine bloccando la vendita già concordata degli aerei F35 e, ancora recentemente, il presidente Joe Biden ha scoperto un nuovo amore per gli armeni definendo “genocidio” quello commesso dalla Turchia contro di loro all’inizio del secolo scorso. La cosa ha suscitato, come previsto, le ire dei turchi, ma anche questo non sembra basti a convincere Erdogan a cambiare atteggiamento. L’atteggiamento che sta cambiando è invece quello dell’opinione pubblica turca.

Già prima della crisi da Covid (probabilmente anche grazie allo zampino americano) l’economia turca aveva cominciato a rallentare pesantemente e la Lira a perdere sempre più valore nei confronti sia del dollaro sia dell’euro. L’inflazione che come sempre colpisce maggiormente le classi medie e quelle più disagiate, è oramai da lungo tempo a due cifre e lo scorso aprile ha toccato il 17,1%, cioè il livello più alto in un mercato emergente dopo la crisi che colpì l’Argentina. Le scelte di Erdogan in campo economico sono contraddittorie e la dimostrazione dell’incapacità di Ankara di affrontare la crisi si è resa evidente col fatto di aver cambiato tre governatori della Banca Centrale in meno di tre anni. A metà marzo il penultimo di loro, l’ex ministro delle Finanze Naci Agbal, nel tentativo di controllare l’inflazione aveva alzato il tasso di sconto dal 10,25% al 19% contro la volontà del “sultano”.
L’arrivo del sostituto, lo sconosciuto professore di economia Sahap Kavcioglu, ha coinciso con una perdita del valore della Lira del 20% contro il dollaro. Il suo primo provvedimento è stato quello di ottenere la sostituzione di tre dei sette membri del comitato di Politica monetaria della Banca Centrale. Erdogan sembra essere convinto, nonostante tutte le teorie economiche lo smentiscano, che un alto tasso d’interesse anziché proteggere il valore della moneta alimenti l’inflazione. Il prossimo 17 Giugno il nuovo comitato per la Politica monetaria della Banca Centrale deciderà quale sarà il livello del nuovo tasso di sconto e, probabilmente, seguirà i desideri del presidente.

Di là dagli aspetti critici dell’economia, è la credibilità stessa presso l’opinione pubblica turca del “sultano” e dei suoi accoliti a costituire un vero rischio per la tenuta del loro sistema di potere. Che Erdogan e familiari fossero coinvolti in scandali economici di ogni genere imputabili alla diffusa corruzione era già noto, ma finora i giornalisti che avevano osato parlarne erano stati arrestati o obbligati a tacere e la magistratura, oramai controllata dal partito di Erdogan, non ha mai intrapreso indagini concrete. Il fatto nuovo è che da circa un mese a questa parte un ben conosciuto boss della mafia turca fuggito all’estero, tale Sedat Peker, si è messo a diffondere propri video su Youtube descrivendo i dettagli di come gli uomini di Erdogan organizzassero i propri schemi di malaffare. Questo Sedat Peker era già stato accusato e processato nel passato per traffico di droga, organizzazione di racket estorsivi, incitamento all’assassinio, furto, contrabbando ecc.
Nonostante tutte le accuse e le varie condanne ricevute ha scontato in carcere pochissimi mesi, una prima volta nel ’99 e una seconda nel 2007. Nel primo caso anziché i sette anni e mezzo inflittigli è rimasto in prigione solo otto mesi, nel secondo caso invece dei dieci anni previsti vi ha trascorso solo pochi mesi. Naturalmente ciò fu reso possibile grazie all’intervento di amici molto altolocati.
Ciò che si sa di certo è che ha sempre vantato, e continua a farlo, di essere stato molto legato a ministri e parlamentari del partito AKP di Erdogan e di conoscere dall’interno tutti i meccanismi del potere.

Sedat Peker.
I suoi video su Youtube appaiono ogni domenica in lingua turca e godono, ogni settimana, dai quattro ai cinque milioni di spettatori. E’ certo che il suo rapporto di fiducia con il partito si è rotto per motivi che non si conoscono, ma ciò che racconta è così pieno di dettagli e di nomi da rendere credibili tutte le sue accuse. Ad esempio, ha spiegato come l’ex ministro degli Interni Mehmet Agar capeggiasse un’organizzazione criminale segreta responsabile dell’assassinio di noti giornalisti a partire dagli anni 90. Agar è tuttora un uomo molto vicino a Erdogan e suo figlio Tolga è un parlamentare membro del partito. Anche il figlio di Erdogan è accusato, in combutta con l’ex primo ministro Binali Yildirim, di contrabbando di cocaina e di aver fatto della Turchia uno degli hub più importanti per la distribuzione di droga verso l’Europa. Peker parla anche di come il governo di Erdogan abbia armato e finanziato i gruppi jihadisti in Siria, aiutandoli a esportare il loro petrolio. Anche per questi motivi la popolarità di Erdogan e dell’AKP è ai livelli più bassi nel gradimento dell’opinione pubblica e non s’intravede, almeno per ora, con quali mezzi il “sultano” immagini di poter risalire la china.

Il problema per chi auspica una Turchia diversa sta nel fatto che un nuovo governo in Ankara non si riesce a intravedere e di conseguenza non si vedono nemmeno prospettive per una diversa politica internazionale più vicina ai valori occidentali. Dopo le “grandi pulizie” attuate da Erdogan esiste un’ampia rete di politici, di giornalisti, di burocrati e funzionari di stato sempre più apertamente scettici verso un allineamento con l’occidente e, seppur il desiderio di un avvicinamento all’Europa sia ancora sentito da gran parte della popolazione, la classe dirigente dominante sembra ormai aver archiviato la prospettiva.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.