Guerra Fredda. A chi giova? (Parte prima)

di Dario Rivolta *

Parte Seconda.

Con il preannuncio russo di voler espellere più di 700 diplomatici statunitensi dal proprio territorio e la minaccia di schierare 100mila uomini sul Baltico, la nuova Guerra Fredda è ufficialmente dichiarata. Fino ad ora da entrambe le parti avevano compiuto atti provocatori e talvolta aggressivi che evidenziavano l’esistenza di una nuova contrapposizione tra i due Stati, ma si era sempre giustificata ogni mossa con una motivazione contingente: Maidan, la Crimea, i missili in Romania e Polonia, le reciproche esibizioni di forza su mari e cieli confinanti o di Paesi amici. Adesso, con l’estensione di nuove sanzioni americane e le reciproche espulsioni, si è deciso di non salvare più nemmeno le apparenze. È ufficiale: la controparte è il nemico.
In questi casi è difficile, e forse inutile, chiedersi chi abbia cominciato e di chi sia la colpa perché ognuno ha qualcosa da rimproverare all’altro e dopo la caduta dell’Unione Sovietica abbiamo visto alti e bassi nei rapporti tra Russia e Stati Uniti. Anche le rispettive opinioni pubbliche, spesso manovrate da centri di pressione più o meno occulti, sono passate dalla reciproca curiosità, all’ammirazione, all’ostilità. L’ammirazione fu soprattutto dei russi verso gli americani e chi viaggiava tra i due Paesi negli anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica ricorda come tra gli abitanti del Paese ex comunista l’amore per l’America fosse così acritico da diventare imbarazzante agli occhi di un europeo abituato a vedere sia le luci che le ombre del potente alleato.
Sta di fatto che anche i commerci ed il trasferimento di know-how dall’America verso Mosca e dintorni si svilupparono fino a lasciar temere la possibilità di un asse politico previlegiato che, addirittura, scavalcasse l’Europa.
Qualche attento osservatore però intuì che la debolezza russa degli anni ’90 e dei primi 2000 aveva incoraggiato qualcuno a Washington a immaginare ben altri obiettivi. I primi segnali che qualcosa, e forse troppo, era cambiato lo si ebbe quando a Saddam Hussein fu permesso di attaccare il Kuwait, scatenando così la prima guerra del Golfo. Che tutto non fosse rose e fiori divenne più evidente con la guerra contro la Serbia, formalmente lanciata per fermare un presunto genocidio (poi dimostratosi inesistente) di cittadini di etnia albanese nel Kosovo. Se ancora fosse esistita l’Unione Sovietica, il rispetto delle reciproche zone di influenza non avrebbe permesso né l’una né l’altra di quelle guerre e probabilmente molti altri avvenimenti più o meno similari non avrebbero avuto la possibilità di verificarsi.
Con la Russia disastrata e controllata da pochi oligarchi soltanto desiderosi di arricchirsi, fu facile per la Nato estendersi agli ex Paesi del patto di Varsavia e perfino ai Paesi Baltici già parte della stessa URSS. Fu un tradimento degli impegni verbali assunti dai presidenti americani con Gorbaciov… ma tant’è!
In quegli anni cominciarono anche strane “rivoluzioni colorate”, apparentemente motivate dal desiderio di alcune di quelle popolazioni di ottenere sistemi politici più democratici e liberali. Successe con la Georgia, uno dei Paesi strategici del Caucaso, pur se guidata da un amico dell’occidente quale era diventato il ministro degli Esteri gorbacioviano Shevardnadze. Un cambiamento di regime in quel piccolo Paese fu giudicato positivo da alcuni strateghi per almeno due motivi: garantirsi attraverso di esso il transito di gas e petrolio dal ricco e turcofilo Azerbaigian all’alleata Turchia (e quindi al Mediterraneo senza dover dipendere dalle condotte russe) e implementare quello che alcuni teorici politici americani avevano cominciato a dichiarare a gran voce, cioè la necessità di un “accerchiamento” della Russia. Che la Russia dovesse essere “accerchiata” non fu mai dichiarato apertamente ma il mantra era che bisognava impedire la rinascita dell’URSS. Con questa filosofia si tentò per almeno due volte qualcosa di simile anche in Kirghizistan, senza però riuscire nell’intento. Contemporaneamente, qualcuno favorì la nascita di gruppi terroristici islamici o pseudo tali in Tagikistan, ma anche qui senza risultato grazie all’immediato intervento delle forze russe in aiuto al governo locale. Alla Turchia fu inoltre assegnato il compito di tentare di egemonizzare Uzbekistan e Kazakistan. Una volta di più, il tentativo non riuscì, questa volta per la forza interna dei regimi ivi instauratisi dall’indipendenza.
Qualche analista ha ipotizzato che tutti questi movimenti mirassero a provocare un indebolimento di Mosca fino al punto da far arrivare alla Repubblica Federativa Russa la stessa fine dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche: la dissoluzione. Se pensiamo alla quantità di ricchezze naturali disponibili nelle singole repubbliche e alla possibilità, dopo il disfacimento della Russia, di metterci sopra le mani da parte di qualche multinazionale, la teoria appare suggestiva ma cadremmo nel campo della fantapolitica e chi scrive non se la sente di inoltrarsi in questo campo.
Ciò che è realmente sotto gli occhi di tutti è che chi puntava al progressivo indebolimento del Governo di Mosca è rimasto spiazzato dall’arrivo al potere di Putin. Da subito, la sua politica è stata di ridare alla politica stessa il ruolo che le era stato sottratto dagli intrighi degli oligarchi e far rinascere nei cittadini russi l’orgoglio dell’appartenenza alla loro secolare cultura. Seppur utilizzando a volte metodi che stenteremmo a riconoscere come liberal-democratici, non ha faticato a coagulare attorno a sé il consenso della maggioranza dei suoi concittadini ed è riuscito a ridare al suo Paese una dignità internazionale.
Le sue azioni in politica interna e internazionale invertirono la tendenza disgregatrice in atto e fecero capire al mondo che, anche se l’Unione Sovietica non sarebbe mai più rinata e il bipolarismo era finito, non si sarebbe più potuto trattare Mosca come una terra di conquista.
Ovviamente non tutti se ne resero immediatamente conto e qualcuno che invece lo capì si senti rinforzato nelle proprie intenzioni ostili. I nostalgici della Guerra Fredda si precipitarono a sbandierare presunte intenzioni aggressive del Cremlino e politici polacchi e baltici alla ricerca di una identità nazionale da offrire ai propri elettori si inventarono il “pericolo russo”. Nessuno in occidente ebbe il coraggio o la forza politica di guardare alla realtà dei fatti e opporsi ad azioni che, oggettivamente, erano vere e proprie aggressioni contro Mosca, seppur mascherate da buone intenzioni. Bruxelles, guidata da baltici, polacchi, svedesi e britannici dette vita a una ipotetica Eastern Partnership con l’obiettivo di sottrarre Bielorussia, Armenia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia e Georgia all’influenza moscovita. Con quest’ultima, con la Moldavia e l’Azerbaigian l’operazione riuscì. La Bielorussia e l’Ucraina, questa nel frattempo ritornata attraverso regolari elezioni sotto il controllo del filorusso Viktor Yanukovich, rifiutarono. Era quello che aspettavano i fautori del “Mosca delenda est” che scatenarono (e finanziarono e guidarono) il malcontento popolare contro la classe dirigente di Kiev, corrotta e spregiudicata come lo era sempre stata dal momento dell’indipendenza e continua ad esserlo oggi.
Il primo Obama sembrò volersi opporre a quella politica di ostilità contro la Russia e lanciò un tentativo di “reset”. Anche lui però dovette piegarsi a gruppi di potere dentro l’Amministrazione che avevano tutt’altre intenzioni e la rappacificazione fallì.
Il resto, dalla guerra civile in Ucraina alle sanzioni e alle contro-sanzioni odierne è storia recente ma una domanda sorge spontanea: a chi giova una nuova guerra fredda?

Guerra Fredda. A chi giova? (Parte seconda)

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.