Sfruttamenti: la realtà presentata nel rapporto della Walk Free Foundation

di C. Alessandro Mauceri –

La Walk Free Foundation ha appena presentato il rapporto annuale sulla schiavitù nel mondo. E le sorprese non sono mancate: secondo gli autori della ricerca la domanda pubblica di prodotti a basso prezzo consentiva alla schiavitù di prosperare in tutto il mondo. Miliardi di dollari in prodotti come laptop, telefoni cellulari e abbigliamento spesso realizzati in parte o in toto grazie a manodopera schiavizzata e, cosa ancora più grave, acquistati dai consumatori dei paesi “sviluppati”. È questo uno degli aspetti più gravi che emergono dalla ricerca appena presentata: l’aver consentito alle multinazionali di collocare la propria produzione in paesi lontani avrebbe permesso di produrre a costi molto bassi. L’altra faccia della medaglia è che queste “economie” spesso sono state possibili solo grazie a forme di moderna schiavitù e grazie al fatto che in molti paesi è consentito produrre senza rispettare le norme di sicurezza e il rispetto dell’ambiente imposte nei paesi sviluppati. “La prevalenza della schiavitù moderna è guidata dal conflitto e dall’oppressione, ma è anche una conseguenza dalla domanda dei consumatori dei paesi più sviluppati”, ha detto Fiona David, direttore esecutivo della ricerca presso Walk Free Foundation. Tutto pur di accaparrarsi un mercato (spesso inutile e legato a forzature consumistiche) che vale centinaia di miliardi di dollari di prodotti venduti nei paesi del G20 incuranti delle conseguenze dal punto di vista sociale e umano.
A confermarlo sono i numeri: lo scorso anno, solo il Regno Unito ha importato 14 miliardi di sterline di merci “a rischio” tra cui elettronica, indumenti, pesce, cioccolato e zucchero. Gli Stati Uniti hanno importato merci simili per un valore di 144 miliardi di dollari, di gran lunga il più grande importatore mondiale di prodotti potenzialmente fabbricati dagli schiavi, seguiti da Giappone e Germania.
Se si guarda il problema dall’altro lato, emerge che ancora oggi nel 2018 sono ancora milioni gli schiavi impiegati in lavori pesanti o pericolosi per la salute o sovrasfruttati. E questo anche nei paesi sviluppati. In Grecia ad esempio dove sono 89mila su una popolazione di 11milioni 210mila persone. Pochi meno in Romania: 86mila su poco meno di venti milioni di abitanti. A ben guardare i dati pubblicati nel rapporto non c’è paese che si salva: Polonia (128mila lavoratori/schiavi), Repubblica Ceca (28mila), Francia (129mila), Germania 167mila), Spagna (105mila). Non si salvano nemmeno i paesi nordici: Sono 9mila i “moderni schiavi” in Norvegia, altrettanti in Finlandia e in Danimarca, pochi di più in Svezia (15mila). Neanche a dirlo, non si salva neanche il Bel Paese: in Italia sarebbero ben 145mila.
Diverse le cause di questo fenomeno: si va da problemi di governance alla carenza di soluzioni per i bisogni di base, dalle disuguaglianze ai conflitto interni.
Ma l’aspetto più grave, come emerge da un confronto con i dati rilevati nell’ultimo rapporto, risalente al 2016, è che in molti paesi europei la situazione non è migliorata. Olanda, Regno Unito, Belgio, Svezia, Croazia, Spagna, Norvegia e Portogallo, tutti paesi ai primi posti sotto questo profilo anche due anni, non hanno avuto alcun miglioramento non solo nel ranking ma anche nella classifica individuale legata alla governance. Lo stesso dicasi per paesi come Austria, Slovenia, Danimarca, Ungheria, Finlandia, Germania e molti altri paesi europei. Nazioni “sviluppati”, ma che non sembrano essere state capaci di migliorare il proprio modo di gestire il problema. Inutile attendersi risultati migliori in paesi come Corea del Nord, Eritrea, Repubblica Centro Africana, Burundi e Malawi, tutti agli ultimi posti della classifica dei paesi per iniziative contro la moderna schiavitù.
Il problema in definitiva pare essere proprio questo: nella maggior parte dei paesi sviluppati (quelli, come detto, che comprano di più dalle multinazionali che sfruttano le moderne forme di schiavitù) non si fa nulla per cambiare questo stato di cose. Tra i paesi del G20 che hanno fatto meno per utilizzare beni e prodotti realizzati dai moderni schiavi ci sarebbero paesi insospettabili come Canada, Giappone, Russia, India Indonesia e Australia, che comunque ha promesso di fare qualcosa entro l’anno.
La realtà è che nonostante le promesse del G20 di sorvegliare le violazioni dei diritti umani nelle catene di approvvigionamento e quelle contenute nei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite, ben 12 dei 20 paesi del G20 non hanno intrapreso alcuna azione per impedire alle imprese di approvvigionarsi di merci fatte da schiavi. “Dobbiamo chiederci perché non viene fatto di più per liberare milioni di persone in tutto il mondo che sono intrappolate, maltrattate e picchiate mentre vengono comprate e vendute per fornire beni per le aziende di tutto il mondo”, ha detto Kevin Hyland, del Regno Unito. “Il livello di azione che i paesi del G20 hanno assunto fino ad oggi per porre fine alla schiavitù moderna è limitato. Queste nazioni hanno la responsabilità di pioniere per porre fine alla domanda di beni importati prodotti da criminali”.
L’unica cosa certa è che nonostante le promesse fatte da decenni sono almeno 40,3 milioni (per oltre il 70% donne, altro punto in forte contrasto con i SDGoals) le persone che si ritiene trovino in condizioni di moderna schiavitù. Una sola cosa non ha detto il rapporto: che i paesi dove maggiore è il numero di schiavi moderni coincide “casualmente” proprio con quelli da cui maggiori sono i flussi migratori che caratterizzano tutto il pianeta: Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Chad, Somalia, Repubblica Centro Africana, per i flussi nel Mediterraneo; Siria, Afghanistan, Myanmar, Cambogia, Papua Nuova Guinea per l’Asia; Venezuela, Cambogia, Ecuador e Messico per gli USA (vedi globalslaveryindex.org).
Ma di questo, i grandi esperti delle maggiori organizzazioni internazionali che si occupano di sviluppo e flussi migratori, pare non vogliano parlare.