25 aprile 1986: la Chernobyl di ieri e i rischi di oggi

di C. Alessandro Mauceri

ChernobylTrenta anni fa, la notte tra il 25 e il 26 aprile 1986, il reattore numero quattro della centrale di Chernobyl esplose provocando il più grave disastro nucleare della storia.
Eppure quell’impianto non era vecchio (oggi in molti paesi europei e in Giappone si utilizzano impianti costruiti trenta o quarant’anni fa): il primo dei reattori di Chernobyl era entrato in funzione solo pochi anni prima, nel 1977. Ma già nel 1982 si era verificato un grave incidente che aveva causato la parziale fusione del nocciolo del reattore n.1, senbbene di questo incidente non si parlò fino al 1985.
La parola d’ordine, quando si parla di nucleare, è “sicurezza”. Per questo nel febbraio del 1986 il ministro dell’Elettrificazione, Vitali Sklyarov, dichiarò ad un giornale che “I rischi di una fusione sono uno ogni 10.000 anni”. Il 25 aprile dello stesso anno venne condotto un test alla centrale di Chernobyl. L’esecuzione del test venne ritardata, ma poco dopo la mezzanotte fu rilevato una calo nella produzione di energia. Invece di sospendere tutto, il test proseguì. Anzi, per evitare che venisse arrestato automaticamente, a causa dei bassi livelli del liquido di raffreddamento, i tecnici bypassarono i sistemi di spegnimento automatico e, per far salire la potenza, rimossero tutte le barre di moderazione tranne sei, violando di fatto le procedure di sicurezza.
La temperatura salì fino al punto che i tappi delle condutture di combustibile saltarono: si trattava di oggetti pesanti ciascuno diversi quintali che, ricadendo, danneggiarono le strutture edili dell’impianto. Fu subito chiaro che si era andati oltre e i tecnici cercarono di fare il possibile, ma in poche decine di minuti il reattore raggiunse una potenza 120 volte superiore a quella normale, il combustibile nucleare si disintegrò e il vapore in eccesso fece esplodere le condutture. Pochi minuti dopo anche il coperchio di mille tonnellate del combustibile nucleare venne distrutto e non ci fu più niente in grado di trattenere le radiazioni. A peggiorare la situazione il fatto che l’incendio scoppiato produsse una reazione tra il metallo dei tubi e l’acqua di raffreddamento rimasta: l’idrogeno prodotto esplose. Si trattò di una vera e propria esplosione nucleare che scagliò all’esterno 35 tonnellate di combustibile nucleare, ed elementi radioattivi si alzarono fino a due chilometri d’altezza e vennero rapidamente dispersi a migliaia di chilometri di distanza.
I pompieri giunti sul posto poterono fare ben poco. L’unica decisione che venne presa fu istituire blocchi stradali per evitare che altre persone si avvicinassero alla zona del disastro. Mosca intanto non poteva non essere informata dell’accaduto, ma la versione ufficiale rimase quella secondo cui il reattore era ancora intatto e il danno riguardava solo i serbatoi d’acqua. Per questo si continuò a pompare acqua nei circuiti, ma così facendo in breve tempo anche gli altri quattro blocchi si guastarono.
Solo la sera del giorno dopo si riunì il comitato d’emergenza governativo (guidato da Valery Legasov, ma perché si comprendesse realmente la gravità della situazione bisognò attendere il giorno dopo, quando Vladimir Pikalov, esperto in guerra batteriologica, nucleare e chimica, vide con i propri occhi che il nocciolo era fuso e che stava rilasciando quantità mostruose di radiazioni e di calore. Solo allora si comprese “ufficialmente” cosa stava accadendo a Chernobyl. Intanto, però, tutti gli abitanti della zona erano stati contaminati da una dose di radiazioni pari a 500 Roentgen (la dose considerata letale è 750 Roentgen/h). lo stesso avvenne per le forze di polizia e per i pompieri, intervenuti all’inizio privi di qualsiasi equipaggiamento di sicurezza: di loro 57 morirono per radiazioni, 1.500 svilupparono malattie respiratorie e 4.000 altre malattie.
Dopo alcuni giorni finalmente vennero inviati migliaia di elicotteri con il compito di scaricare sul reattore squarciato 5.000 tonnellate di sabbia, piombo, argilla e boro, materiali che che avrebbero dovuto assorbire neutroni. Così facendo, però, si contribuì a tenere il nocciolo caldo.
Cominciò anche l’evacuazione dei residenti ai quali vennero date solo due ore per raccogliere i propri beni: vennero evacuate 43.000 persone.
Intanto ci si rese conto (per la prima volta si capì che questo era un problema a livello internazionale) che le radiazioni hanno varcato i confini: ad accorgersene fu un ingegnere dell’impianto nucleare di Forsmark, in Svezia, che diede l’allarme che si estese a tutto il continente.
Passarono altri giorni prima che si risalisse alla vera causa: sebbene un laboratorio di ricerca in Danimarca avesse denunciato un Mca (Maximum credible accident), le autorità sovietiche parlarono a lungo di un incidente limitato che aveva causato solo due morti. Per giorni, anzi per settimane Mosca continuò a negare le notizie riportate da alcuni giornali dopo che erano state diffuse le immagini satellitari. Si parlò solo di due morti e di poche persone in ospedale ma, soprattutto, di radiazioni in diminuzione.
Intanto a Chernobyl si manifestò il rischio che altre vasche di raffreddamento potessero causare una nuova esplosione. Per evitarla tre ingegneri, Alexei Ananenko, Valeri Bezpalov e Boris Baranov, si immersero per aprire le valvole e svuotarle. Lo fecero volontariamente ben sapendo che il livello di radiazioni che avrebbero assorbito sarebbe stato letale. Con il loro sacrificio queste persone hanno salvato il mondo da una seconda Chernobyl, ma nessuno ha mai ricordato i loro nomi. Morirono pochi giorni dopo a causa delle radiazioni assorbite.
La loro stessa sorte è toccata a molti dei cosiddetti “liquidatori ucraini”, persone che hanno messo a repentaglio la propria vita per limitare i danni dell’incidente: dei 350.000 che si trovavano sul posto, solo 120.000 sono ancora vivi: “abbiamo pagato un prezzo altissimo e ancora lo paghiamo”, ha detto Valeri Makarenko, uno dei primi reporter a mostrare in tv cosa rimaneva del reattore 4 dopo l’esplosione.
Furono necessarie due settimane perchè, finalmente, il vicepresidente dell’Accademia sovietica delle scienze Yevgeny Velikhov ammettesse che si era trattato di un disastro “senza precedenti”. Solo allora, in tutta l’Unione Sovietica vennero distribuite tavolette di iodio, un rimedio ormai inutile. Così come venne presa tardivamente la decisione di chiudere completamente la centrale di Chernobyl: il terzo reattore verrà spento definitivamente solo a dicembre del 2000.
Nel dicembre 1986 si decise (quante radiazioni sono state sparse nell’ambiente, intanto…) di sigillare tutto con un gigantesco tetto, il cosiddetto “sarcofago”, costruito con 300.000 tonnellate di cemento e 6.000 tonnellate di metalli pesanti. Un tetto pensato per durare 30 anni.
Trent’anni sono passati e non è ancora ben chiaro cosa si dovrà fare con Chernobyl. Il consorzio Novarka sta completando un nuovo gigantesco sarcofago (108 metri di altezza, 162 di lunghezza e 257 di larghezza), che dovrà sovrastare parte della ex centrale nucleare. La struttura, è stata costruita in una zona adiacente, per poi essere collocata sul reattore n.4. I lavori dovrebbero essere completati il prossimo anno. Tre decenni non sono bastati per avere le risposte a molte domande. A Parigi l’“Istituto Nazionale di Lingue e Civiltà Orientali (Inalco)” ha dedicato al problema un evento internazionale.
Oleh Shamshur, ambasciatore ucraino in Francia ha detto che “La fine dei lavori è prevista per il 2017, ma bisogna decontaminare il contenuto del sarcofago. Ci vorrà più tempo del previsto. La fine dei lavori, se non mi sbaglio, è fissata per il 2023”. Il progetto del nuovo sarcofago, finanziato da 40 Paesi, non tiene in considerazione le tonnellate di materiale radioattivo (intere case, automobili, animali da allevamento e da compagnia) che sono state interrate in una vasta area intorno a Chernobyl: tutto materiale altamente radioattivo e ancora letale. Materiale che forse rimarrà lì per sempre.
E, se è vero che i 50.000 abitanti di Prip’jat’ sono stati trasferiti, sono milioni le persone che ancora vivono nelle zone contaminate, come ha spiegato Galina Ackerman, ricercatrice all’Università di Caen, per la quale “Molti abitano ancora nelle zone contaminate, non si possono spostare otto milioni di persone. È vero anche che nel raggio di 30 chilometri ci sono zone teoricamente abitabili. Il problema è che per bonificarle e renderle vivibili per l’uomo ci vorrebbero investimenti enormi”.
La lezione impartita da Chernobyl (e poi da Fukushima), però non sono bastate. In Giappone il governo ha deciso di tornare a produrre energia nelle centrali nucleari e in Europa sono molte le centrali attive. E molte di queste sono molto più vecchie di quanto non fosse Chernobyl quando avvenne il disastro. Come quelle in Belgio e in Francia (ne parlammo qui). Ma anche quella in Svizzera dove, il rischio di una nuova Fukushima è tutt’altro che remoto: a dirlo è stato nei giorni scorsi Heini Glauser che ha avvisato che “la centrale potrebbe essere inondata in qualsiasi momento”. “Il livello dell’Aar – ha detto – rischia di salire di diversi metri. Uno scenario del tutto simile a quello di Fukushima”. Eventi che potrebbero avere effetti devastanti sull’impianto di Beznau. “Questa centrale nucleare non resisterebbe né a un’alluvione, né a un terremoto. Ancora più grave è che di recente abbiano scoperto dei “punti deboli” nella cappa metallica pressurizzata che riveste il nocciolo. È una centrale vecchia e dovrebbe essere chiusa una volta per tutte”, ha detto Leo Scherer di Greenpeace.
Tornano in mente le parole di Valentin Kupny, padre di Alexander, uno dei tecnici della centrale russa dopo l’incidente: “Chernobyl è un problema eterno”, “Ci vorranno millenni per smaltire gli isotopi radioattivi che ormai si trovano dappertutto: nella terra, nell’acqua e nell’aria delle zone contaminate. Io non credo nell’utilità del nuovo sarcofago”.
Trent’anni (e diversi altri incidenti nucleari gravissimi, come quello avvenuto in Giappone nel 2011) non sono bastati per far capire alla gente che i rischi connessi con questo modo di produrre energia elettrica sono troppo alti per essere accettabili.