L’identità negata dei curdi, una questione europea

di Ercolina Milanesi –

La porzione di mondo chiamata Medio Oriente comprende, oltre a israeliani e palestinesi, anche il popolo curdo. Quaranta milioni di persone che non hanno uno Stato, divisi tra Iraq, Iran, Siria, Turchia e Armenia che semplicemente vengono ignorati nelle loro richieste di diritti. Questo implica la persecuzione, la tortura, il divieto di parlare la propria lingua, di conservare tradizioni, usi, costumi. In sostanza il divieto all’identità.
Lo scenario geopolitico che si staglia ai confini orientali dell’Europa riguarda molto da vicino il vecchio continente. Le implicazioni economiche in primis rendono paesi come la Turchia, impegnata dal 2005 nei negoziati di ingresso nell’Unione europea, protagonisti e partner strategici. Per questa ragione i governi europei tendono a “non vedere” le violazioni dei diritti umani che ancora si compiono nella patria di Ataturk. Lì la più grande minoranza del Paese, i curdi, subisce quotidianamente vessazioni e soprusi.
Sui giornali italiani non arrivano i bollettini di guerra simili a quelli degli anni 90, le sparizioni, gli arresti, le torture, le squadre speciali che perquisiscono villaggi di pastori per scovare le cellule del Pkk. Adesso c’è un governo islamico-moderato, Obama ha fatto il primo suo discorso al mondo musulmano ad Ankara esattamente un anno fa, la Turchia non fa più paura, l’esercito pare starsene in silenzio. E invece, poco più di un anno fa, Ergenekon, la cosiddetta Gladio turca, ha portato alla luce almeno una parte del cosiddetto “Stato profondo” del paese anatolico.
“In Turchia sta ricominciando il conflitto armato”, denuncia Gulten Kisanak, co-presidente del Partito della pace e della democrazia (Bdp), componente del Parlamento turco. “Il governo Erdogan sta facendo molta demagogia. So bene che dall’Europa la percezione è differente”, spiega la parlamentare. “L’anno scorso abbiamo aumentato il nostro consenso elettorale. Così due settimane dopo il voto hanno arrestato 1.583 dirigenti del partito di cui ero parte, otto sindaci, tre presidenti di provincia e altri simpatizzanti”. Agli arresti lo scorso 24 dicembre è seguito lo scioglimento del partito filocurdo Dtp da parte della Corte costituzionale e l’interdizione di 37 dirigenti dall’azione politica per cinque anni. Di fatto la legge antiterrorismo viene usata come un’arma per reprimere ogni tipo di manifestazione, di associazione culturale o politica della minoranza curda in Turchia. “Ciò che abbiamo vissuto e continuiamo a vivere non ha niente a che fare con l’apertura democratica di cui si parla in Turchia. Perché tanti minori curdi devono finire in carcere ed essere condannati a pene superiori alla loro età? Perché per il solo fatto di manifestare si rischia la morte o la tortura?”, dice ancora la co-presidente del Bdp. Eppure, spiega anche che mai come ora in Turchia ci sono le possibilità per arrivare a una soluzione democratica e condivisa del conflitto turco-curdo.
Invece in Iraq, nel Kurdistan autonomo a nord del Paese, la vita procede. Ora, dopo aver subito le persecuzioni di Saddam Hussein, le armi chimiche, la terribile campagna Anfal che ha ucciso 187.000 persone le cose vanno meglio. “La situazione è ben diversa dal resto dell’Iraq”, racconta la giovane rappresentante del governo curdo iracheno. “Abbiamo una nostra costituzione, non si fa differenza tra etnie o religioni. Adesso godiamo di questa pace, stiamo ricostruendo il Paese in cui per anni abbiamo subito violenze e torture”. Due giovani donne curde, due differenti angolazioni da cui guardare la complessa situazione di questo popolo senza Stato. Ma la soluzione invocata è la stessa: attraverso il dialogo si può, e si deve, arrivare a una soluzione pacifica.