Nagorno Karabakh, come in Medioriente

La capitale della regione che vuole l’indipendenza e la città azera più bersagliata dagli indipendentisti: due fotografie.

di Gianluca Vivacqua

Dal 27 settembre è in corso un altro conflitto azero-armeno nel Nagorno Karabakh, il terzo dall’autoproclamata indipendenza della regione. Il primo, durato dal 1992 al 1994, si era concluso con gli accordi di Biskek che sospendevano i combattimenti a tempo indeterminato senza decretare formalmente un vincitore; di fatto però quella che fino al 1992 era una porzione del territorio azero a maggioranza armena non solo non si vedeva messa nella condizione di ritrattare la propria dichiarazione d’indipendenza ma, grazie ad alcune fortunate fasi del conflitto, era anche riuscita a estendere i suoi confini. All’Azerbaijan rimanevano le briciole del territorio dell’ex regione autonoma, sufficienti però a mantenere aperto un delicato fronte bellico. Le frequenti violazioni di confine da parte azera sono alla base sia del conflitto-lampo del 2012 (la guerra dei Quattro giorni o anche Seconda guerra del Nagorno Kabarakh) che di quello attuale. Dopo più di un mese dall’inizio delle ostilità, e una tregua già raggiunta e bruciata, la guerra procede a fasi alterne, con rapide avanzate azere e altrettanto rapide operazioni armene per riguadagnare le posizioni. Lo schema del botta-e-risposta impera anche nella guerra dei bombardamenti: come nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania, dove in risposta a un attacco missilistico palestinese è lecito aspettarsene uno da parte israeliana, così in questa parte del Caucaso dopo un bombardamento su Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, quasi sicuramente ce ne sarà uno su Ganja, la città azera più importante a portata di tiro degli armeni.

Stepanakert.
Il suo suffisso la accomuna a città davvero molto antiche, come Manzicerta, teatro di due importanti battaglie fra i selgiuchidi e i bizantini e poi di una fra ottomani e russi, o Tigranocerta, la capitale dei re armeni della dinastia degli Artassidi. Non sappiamo se nel momento in cui l’attuale capitale del Nagorno Karabakh, che in origine si chiamava Khankendi, fu ribattezzata in onore di un rivoluzionario bolscevico, Step’an Šahowmyan, le autorità cittadine intendessero in qualche modo ispirarsi all’antica grandezza di quelle città, oggi entrambe in territorio turco con altri nomi (Manzicerta è Malazgirt e quel che resta di Tigranocerta si trova nei pressi di Silvan). Di sicuro c’è che Stepanacerta (o Stepanakert) per gli azeri continua a essere Khankendi, che non è affatto un nome meno prestigioso: anzi, si ricollega a un altro grande periodo di splendore della città, quando era addirittura la residenza dei khan del Karabakh. Per il governo di Baku è anche un ulteriore modo per negare la legittimità di un Nagorno Karabakh post-azero: furono gli azeri infatti a decidere di ripristinare il nome originario della città dopo che, nel 1991, si distaccarono dall’Unione Sovietica e, come gli altri stati già membri dell’Urss, si precipitarono a gettare secchiate di vernice sui loro ultimi ottant’anni di storia. Eppure il cambio di denominazione da Khankendi a Stepanakert in un certo senso aveva salutato l’inizio dell’era del controllo dell’Azerbaijan sul Nagorno Karabakh: esso avvenne, infatti, proprio nell’anno – il 1923 – in cui la regione, o almeno la sua gran parte, fu assegnata a Baku dal governo centrale di Mosca. Il ritorno all’antico invece fu il casus belli. E dunque la ragione per cui proprio gli azeri alla fine ridussero la città in uno stato tale da dover essere ricostruita quasi ex novo. Dopo un assedio ininterrotto di cinque mesi (da gennaio a maggio ’92) la città era ridotta a un cumulo di macerie, come ebbe a testimoniare un cronista del Time. Si riprese nel corso dei primi due decenni del XXI secolo, quando il suo patrimonio artistico poté anche arricchirsi di nuove architetture, soprattutto religiose. Risparmiata da attacchi veramente violenti nel corso della guerra dei quattro giorni, Stepanakert è tornata ad aver a che fare con le bombe alla fine di settembre di quest’anno, pochi giorni dopo l’inizio del nuovo conflitto. Un altro bombardamento piuttosto serio la città lo ha subito il 2 ottobre. In seguito le bombe sono piovute anche il 4, il 7, l’11 e il 15.

Ganja.
Le vicende del nome di Ganja hanno qualche analogia con quelle del toponimo di Stepanakert. Ganja è il nome che le diedero gli arabi che la fondarono, ma poi in età staliniana essa dovette cambiare nome in Kirovabad. Recuperò il suo nome primitivo dopo che l’Azerbaijan si rese indipendente dall’Urss. Per gli armeni Ganja che, in quanto a grandezza, è la seconda realtà urbana del Paese dopo Baku, è una città maledetta, essendo stata teatro di un cruento pogrom nel 1988 (quando però si chiamava ancora col nome sovietico). La comunità armena che era parte integrante del tessuto della città fu completamente estirpata: 130 persone appartenenti a quella minorabnza etnica furono uccise e le altre costrette a scappare. Eppure Ganja, per così dire, non è mai stata tanto odiata dagli armeni come dall’inizio di quest’ultimo conflitto. Nei primi giorni dall’inizio delle ostilità è stato subito preso di mira un obiettivo importante, il suo aeroporto; poi il 4 ottobre il bersaglio dei missili è stato un condominio residenziale, e così pure l’11 e il 17.