Nagorno Karabakh. Cosa sta accadendo nel Corridoio di Lachin, tra realtà e malintesi

di Murad Muradov * –

Il 12 dicembre un gruppo di attivisti ambientali azeri e alcuni rappresentanti di varie ong hanno dato il via a una protesta pacifica lungo la strada Lachin, che collega l’Armenia con la città di Khankendi dell’Azerbaigian, dove vive la popolazione armena, ora controllata dai peacekeeper russi lì temporaneamente dispiegati. I manifestanti denunciano lo sfruttamento illegale delle miniere d’oro e di rame di Qizilbulaq (Drmbon) e Demirli (Kashen) situate all’interno del territorio, e richiedono una garanzia di libero accesso a ispettori ambientali. Tali miniere hanno a lungo costituito una delle principali fonti di reddito per l’entità separatista, e i metalli ivi prodotti hanno rappresentato alcune tra le pochissime esportazioni di cui disponeva. La settimana precedente il governo azero aveva chiesto di poter controllare tali operazioni per garantire la sicurezza ambientale e una tassazione adeguata, ma le autorità de facto del Karabakh si sono rifiutate. L’11 dicembre l’Azerbaigian ha inviato alla Russia una nota diplomatica riguardante lo sfruttamento illegale delle risorse naturali nella regione liberata del Karabakh.
Nel momento in cui le forze russe hanno bloccato la strada per impedire ai manifestanti di dirigersi verso Khankendi, i ranghi della manifestazione hanno iniziato a gonfiarsi, in quanto centinaia di persone si sono unite alla protesta. Sono state montate delle tende e le autorità azere hanno aiutato con l’elettricità e il riscaldamento. Gli armeni del Karabakh, così come altre organizzazioni armene e filo-armene in tutto il mondo, hanno iniziato quasi immediatamente ad accusare Baku di condurre “una politica di genocidio” e hanno affermato che l’Azerbaigian avrebbe cessato le forniture di gas (che in realtà sono fornite dall’Armenia), il che è stato già confutato dalla Socar azera. Sfortunatamente anche un certo numero di media ed esperti di tutto il mondo si sono attenuti a questa versione distorta e parziale degli eventi, rappresentandoli come tentativi del governo azero di creare una catastrofe umanitaria in Karabakh per costringere gli armeni ad andarsene.
Diversi punti dovrebbero essere chiariti per comprendere appieno il contesto del processo. Innanzitutto l’accordo trilaterale del 10 novembre del 2020, che regola il regime di cessate-il-fuoco e la presenza russa in Karabakh, non prevede alcuna disposizione che limiti l’ingresso di civili azeri disarmati nel territorio. Piuttosto, come accade generalmente con le forze di mantenimento della pace, la loro missione è quella di controllare coloro che entrano e fornire loro garanzie di sicurezza. Tuttavia, a due anni dalla fine della guerra, la popolazione azera è ancora virtualmente impossibilitata a recarsi a Khankendi e in altre aree popolate da armeni. Mentre nei primi mesi successivi al cessate-il-fuoco Baku non ha insistito molto sulla consapevolezza che i contatti avrebbero dovuto essere ripristinati con molta attenzione e gradualità, ora che i colloqui di pace tra Azerbaigian e Armenia sono in una fase avanzata imporre un isolamento quasi totale tra le comunità non appare sensato. In realtà l’isolamento viene perpetrato in entrambe le direzioni: l’anno scorso i peacekeeper russi hanno vietato l’ingresso a una donna armena del Karabakh che voleva trasferirsi a Shusha, città su cui l’Azerbaigian ha ripristinato la propria sovranità dopo la guerra del 2020. Inoltre vale la pena ricordare che il punto 7 dell’accordo del 9 novembre, il quale stabilisce che “gli sfollati interni e i rifugiati devono rientrare nel territorio del Nagorno-Karabakh e zone limitrofe sotto la supervisione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati”, è tuttora lungi dal venire attuato, e la situazione sul campo non si discosta dallo scenario di due anni fa.
Inoltre, mentre la parte azera è in gran parte accusata di aver chiuso la strada ai civili armeni, i manifestanti hanno già smentito questa affermazione, confermando che le auto civili possono transitare liberamente sulla strada di Lachin. Sono infatti state le forze russe a chiudere la strada con i loro camion fino al 19 dicembre, come mostrano le foto e come confermano molte persone in Armenia, tra cui il leader del Partito Europeo Tigran Khzmalyan, non particolarmente noto per le sue simpatie verso Azerbaigian e Turchia. Anche Hikmet Hajiyev, consigliere per la Politica estera del presidente Aliyev, ha confermato che la strada non è bloccata dalla parte azera. Inoltre, durante la sessione speciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dedicata a questo tema, solo Francia e Irlanda hanno indicato esplicitamente l’Azerbaigian come parte responsabile della chiusura, mentre la maggior parte degli altri membri ha preferito sottolineare una responsabilità condivisa tra Baku e Yerevan. Al contempo la maggior parte delle dichiarazioni rilasciate richiede il passaggio senza restrizioni specificamente per civili e carichi umanitari, che è esattamente ciò a cui l’Azerbaigian è interessato: il motivo dell’ira è il frequente passaggio di persone armate, o armi, con il tacito consenso delle forze russe.
I peacekeeper russi hanno già dimostrato di essere i meno interessati a facilitare i contatti e la normalizzazione tra le parti, e dato che la Russia ha recentemente iniziato a speculare sull’estensione della missione di peacekeeping fino a 15-20 anni, risulta naturalmente sensato per l’agenda moscovita far sembrare irraggiungibile la pace tra l’Azerbaigian e l’Armenia. Inoltre l’enigmatica nomina di Ruben Vardanyan, oligarca russo di origine armena, alla carica di ministro di Stato dell’Artsakh nel momento in cui i negoziati di pace sembravano aver preso un vero e proprio slancio, solleva ulteriori interrogativi. Vardanyan ha affermato che i popoli dell’”Artsakh” e dell’Azerbaigian dovrebbero vivere “l’uno accanto all’altro ma separatamente”, indicando il suo sostegno alla vana e disperata pretesa di indipendenza. Inoltre questa affermazione ha fatto echeggiare le famigerate parole dell’ex presidente armeno Kocharyan, che una volta definì azeri e armeni “etnicamente incompatibili”.
Le attività di Vardanyan mirano chiaramente a impedire a tutti i costi il processo di normalizzazione delle relazioni tra Azerbaigian e Armenia. Proprio nei giorni scorsi, l’attuale “governo” dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh ha licenziato dalla posizione di segretario del Consiglio di sicurezza dell’Artsakh Vitaly Balasanyan, noto per i suoi efficaci canali di comunicazione con gli azeri; in un’altra palese manifestazione di parzialità, le cosiddette autorità dell’Artsakh hanno avviato un procedimento penale sul caso di Toros Qazaryan, l’abitante armeno del Karabakh che il 1 gennaio ha volontariamente raggiunto una postazione azera ed è stato accolto e sostenuto (è stata diffusa una foto che lo ritrae mentre abbraccia un ufficiale azero). Senza alcuna indagine o verifica dei fatti, il servizio di sicurezza dell’Artsakh ha dichiarato che “la parte azera persegue l’obiettivo di disinformare il pubblico internazionale e diffondere narrazioni propagandistiche”. Durante le festività del nuovo anno, la propaganda armena si è sforzata di diffondere l’immagine degli armeni del Karabakh che soffrivano per il blocco, pur non preoccupandosi molto della sua affidabilità. Infatti in un tweet è stato affermato che la popolazione di Khankendi (la principale città della regione) è stata costretta a utilizzare lampadine a led a causa di interruzioni di corrente, con uno scatto che testimonia in realtà la presenza di illuminazione elettrica per le strade. Ishkhan Verdyan, un blogger armeno dissidente che ora vive in Turchia, ha scritto sulla sua pagina Facebook il 9 gennaio che i fornitori armeni che portavano prodotti in Karabakh sono stati fermati e costretti a tornare indietro non dagli azeri, bensì dalle forze di frontiera armene.
I responsabili politici e gli esperti che criticano l’Azerbaigian tendono a dimenticare che durante questi due anni Baku ha dimostrato molta buona volontà rifiutandosi di affrettarsi con il processo di reintegrazione completo anche di fronte alle frequenti provocazioni, inclusa la fornitura di quantità significative di armi ed eventi come l’arrivo di un gruppo di militari iraniani armati con lo scopo di addestrare le cosiddette “forze di autodifesa dell’Artsakh”, il tutto attraverso il corridoio di Lachin dall’Armenia. Per quanto riguarda le forniture di gas e altri servizi, essi provengono sempre dall’Armenia e Baku non si è mai assunta alcuna responsabilità per garantire la loro fornitura ininterrotta, il che sarebbe apparso singolare considerando che “le autorità dell’Artsakh” rifiutano costantemente contatti, anche a livello base. Infatti, fino a quando non ci sarà un accordo di cooperazione su questioni come l’ambiente, l’uso delle risorse e l’attività economica in generale, è difficile chiedere a Baku una riconciliazione politica.
Alla luce di tutto ciò, è infelice leggere commenti come quello fatto da Tom de Waal che ha paragonato i manifestanti azeri ai “piccoli uomini verdi” russi schierati nel marzo 2014 in Crimea, il che non potrebbe essere più lontano dalla realtà. Tali “piccoli uomini” sono stati inviati dallo stato con il preciso scopo di facilitare l’occupazione del territorio di un altro stato senza alcuna minaccia tangibile contro la Russia o la popolazione della Crimea. Le persone che si sono radunate in pieno inverno nelle gelide montagne del Karabakh richiedono invece l’attuazione delle norme fondamentali del diritto internazionale e del corretto svolgimento della missione di mantenimento della pace. In effetti l’unico vero “grande uomo verde” in questa storia è Vardanyan, un uomo schierato da Mosca per rovinare e sovvertire il corretto processo di riconciliazione e allo stesso tempo ostacolare l’ascesa dell’Ue come principale mediatore e costruttore di pace nella regione. Appare infatti che per Vardanyan e per figure affini in Armenia demonizzare l’Azerbaigian e provocarlo a compiere passi che potrebbero nuovamente distruggere l’agenda dei negoziati di pace rappresenti l’obiettivo finale e un modo per aggrapparsi al potere. Invece di infangare il “Corridoio Verde”, i sinceri sostenitori della riconciliazione azero-armena dovrebbero concentrarsi su come trasformarlo in una strada verso una pace sostenibile e inclusiva.

* Murad Muradov, co-fondatore e vicedirettore di Topchubashov Center, possiede una laurea triennale in Relazioni Internazionali ottenuta presso l’Accademia della Pubblica Amministrazione della Repubblica dell’Azerbaigian (2011), un M.A. in Diplomazia e Affari Internazionali ottenuto presso l’Accademia Diplomatica dell’Azerbaigian (2013) e un M.Sc. in Politica Comparata ottenuto presso la London School of Economics (2015). Ha partecipato a numerosi programmi di formazione, summer school e fellowship sia in Azerbaigian che all’estero, tra cui la John Smith Trust Fellowship for Wider Europe (2017). Le sue aree di competenza riguardano la politica europea, le politiche di identità e nazionalità e l’economia politica internazionale.