di C. Alessandro Mauceri –
Gli Stati Uniti d’America hanno effettuato una missione militare (con un drone) per uccidere un alto esponente del governo e delle forze armate di un altro Paese. Un atto che fino a non molto tempo fa avrebbe significato “guerra”. Il presidente USA, Donald Trump, si è subito affrettato a dichiarare che quello che aveva ordinato era un atto “necessario”, ma da quando lo è necessario uccidere qualcuno senza alcuna sentenza di colpevolezza emessa da un tribunale? Ha inoltre precisato che il suo “non” voleva essere un atto di guerra.
Ma la storia ci insegna che molte guerre, che sono costate migliaia se non milioni di vite umane, sono iniziate per atti molto meno gravi.
Al di là di quelle che sono le reali motivazioni di tutte le guerre, compresi la supremazia e controllo del territorio e delle sue risorse, è questo il nocciolo della questione: uno Stato è “sovrano” fino a quando gli altri Stati non hanno il diritto di compiere certe azioni come violarne i confini, reali o virtuali che siano. Quando ciò avviene, il rischio è scatenare una “guerra”.
Per comprendere l’importanza di questo aspetto, forse è bene fare un passo indietro nel tempo. Le prime “dichiarazioni di guerra” ufficiali con mezzi diplomatici vengono fatte risalire al Rinascimento. Ma nel diritto internazionale il riconoscimento dello stato di ostilità tra Paesi e le sue regole sono contenute nelle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907. Nel 1928 fu il Patto Briand-Kellogg, tuttora in vigore a dichiarare illegittimo il ricorso alla guerra come risoluzione di tutte le divergenze o conflitti di qualunque natura o di qualunque origine possano essere. Questo accordo, noto anche come Trattato di rinuncia alla guerra o Patto di Parigi, avrebbe dovuto essere solo bilaterale, tra Francia e USA; venne proposto al segretario di Stato statunitense Frank Kellogg dal Ministro degli Esteri francese Aristide Briand nella speranza di creare una sorta di protezione internazionale la Germania. Kellogg accolse la proposta, ma la trasformò in un accordo multilaterale: dieci anni dopo, nel 1939 a Washington, vennero depositate le ratifiche di 63 stati, un successo incredibile per i tempi: gli Stati Uniti d’America, Australia, Canada, Cecoslovacchia, la stessa Germania, Regno Unito, India (la stessa ufficialmente in guerra con il Pakistan da oltre sessanta anni!), Irlanda, Italia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Polonia, Belgio, Francia, Giappone e molti altri.
Come molti altri accordi internazionali però questo Patto non trovò mai effettiva applicazione. Alcuni sostengono a causa di alcune lacune formali: lo stesso segretario statunitense Kellogg fece rilevare la mancanza di un chiaro riferimento alla legittima difesa, giustificata solo in parte dal “riconoscimento implicito” della stessa. “Che senso ha sottoscrivere un accordo internazionale se poi non lo si vuole rispettare?” Il caso del Patto Briand-Kellog è, in tal senso, esemplare. Nella premessa si legge che “Tutti i Paesi firmatari che cercheranno di sviluppare gli interessi nazionali, facendo ricorso alla guerra, saranno privati dei benefici del presente trattato”. A questo si aggiunge che (Articolo 2) il rispetto del trattato stesso e la rinuncia alla guerra vale esclusivamente nei rapporti reciproci tra gli Stati contraenti.
Il trattato però vieta regolamentare l’adozione di misure simili alla guerra, come la rappresaglia armata (magari realizzata con un drone…) e ribadisce la necessità che il ricorso alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti dovesse essere messo al bando.
Tra le belle parole contenute in questo accordo e in decine e decine di trattati internazionali a volte frutto di elaborazioni durate anni e anni e riguardanti temi scottanti, e la realtà storica esiste un abisso. A dimostrarlo proprio le guerre degli ultimi decenni. E alcune di queste sono state iniziate proprio dagli USA.
Uno dei cambiamenti più significativi dell’ultimo periodo è stato forse cercare di “giustificare” in qualche modo l’utilizzo della forza su un Paese sovrano. A volte facendola deliberare al Consiglio di sicurezza dell’ONU, come quando si deve intervenire in territori dove si sarebbero verificate gravi violazioni dei diritti umani: si pensi alle guerre in Bosnia, in Somalia, in Burundi e molte altre. Ma secondo numerosi studiosi di diritto, tra i quali G.U. Rescigno e V. Onida, si tratta di una giustificazione poco plausibile.
In altri casi invece si è cerca di trincerarsi dietro scappatoie e definizioni degne di un sofista. Ad esempio l’attacco degli USA in Iraq senza attendere il consenso dell’ONU venne giustificato con un “diritto all’autodifesa attraverso l’azione preventiva”. Anche la guerra in Vietnam, sebbene approvata dal Congresso degli Stati Uniti, non fu mai legiferata come vera e propria “dichiarazione di guerra”, ma come autorizzazione all’uso della forza: una differenza ancora poco chiara dopo decenni di studi.
Ma non basta. Esiste una questione ancora più spinosa della quale però, dopo centinaia di missioni di guerra e decisioni, come quella di pochi giorni fa, di usare l’esercito su un Paese straniero, non ha parlato nessuno. Ad autorizzare l’uso della forza è quasi sempre l’organo che ha potere legislativo. In Italia, ad esempio questa decisione (art. 78 della Costituzione) spetta al Parlamento, riunito in sessione congiunta, che incarica poi il Governo di procedere, anche se a “dichiarare guerra” ufficialmente è il Capo dello Stato. La stessa cosa vale per gli USA: anche qui a decidere di iniziare una guerra non è il presidente, ma il Congresso. Stranamente però nessuna delle guerre condotte dagli Stati Uniti d’America negli ultimi decenni è mai stata preceduta da una formale “dichiarazione di guerra”. E se da un lato è vero che il presidente degli Stati Uniti d’America è comandante in capo delle Forze Armate e ha la responsabilità ultima di dirigere e disporre le forze militari, dall’altra è altrettanto vero (o forse sarebbe meglio dire “dovrebbe essere”) che è pur sempre soggetto a precisi limiti. Nel caso degli USA sono i limiti previsti dalla War Powers Resolution, secondo la quale solo il Congresso avrebbe il potere di autorizzare l’impiego di truppe militari “più a lungo di 60 giorni”. Ancora una volta, come per il Patto Briand-Kellogg, l’autorizzazione all’uso delle forze armate non è definito molto chiaramente, lasciando in questo modo spazio a interpretazioni e a “missioni” come quella “lampo” con i droni appena effettuata.
In realtà, negli USA non è Trump il primo ad aver deciso una guerra senza attendere l’autorizzazione del Congresso. Numerosi studiosi hanno più volte criticato i suoi predecessori accusandoli di aver iniziato conflitti armati senza aver ottenuto la necessaria dichiarazione di guerra, come nel caso dell’invasione di Panama del 1903, della guerra di Corea, della guerra in Vietnam e dell’invasione di Grenada, giusto per fare qualche esempio. Per questo motivo il Congresso ha approvato una legge secondo la quale il presidente degli USA non dovrebbe disporre deliberatamente delle forze armate senza prima aver consultato “almeno” i leader del Congresso. Ma anche questa legge è stata regolarmente disattesa dai presidenti che si sono succeduti. E senza che la Corte Suprema avesse mai nulla di dire al proposito.
Fu un sofista greco, Protagora, vissuto intorno al 400 a.C., a dirlo chiaramente: la legge è una semplice convenzione frutto della scelta di una maggioranza e solo davanti alla legge un uomo diventa tale. Negli USA, ma anche in molti altri paesi “democratici” e “civili” e nel contesto internazionale, leggi e accordi che dovrebbero regolamentare in modo netto la ripartizione dei poteri e il rispetto dell’ “uomo” in quanto tale, spesso vengono scavalcate; giusto per usare un eufemismo si pensi a Guantanamo e ai luoghi di detenzione simili gestiti dagli americani.
Al loro posto vengono sempre più spesso adottati comportamenti che non fanno capo o riferimento a nessuna regola. E che vanno ben oltre le leggi vigenti. Azioni che potrebbero avere conseguenze gravissime in diverse parti del pianeta ma che sembrano non importare molto quando c’è in ballo la rielezione alla Casa Bianca.