R.D. Congo. La maledizione del coltan. Che tutti abbiamo negli smartphone

di C.Alessandro Mauceri –

Nero minieraCi sono guerre di cui non si parla mai. Guerre che raramente finiscono sulle prime pagine dei giornali. Guerre che producono milioni di morti, ma che non sfruttano mediaticamente esecuzioni e decapitazioni. Guerre come quella che da anni insanguina il Congo, secondo alcuni il più grande olocausto dell’era modera: sarebbero più di otto milioni i morti dal 1998 ad oggi.
Nessuna giustificazione politica, nessuna (seppur blanda) scusante etnica, non si è trattato di scontri tribali tra etnie per il controllo del territorio. Come è avvenuto e come avviene ancora oggi, si tratta di una guerra per motivi economici: il controllo di una risorsa, una delle tante, che potrebbe rendere il paese africano uno dei più ricchi del continente e che, invece, lo rende schiavo di un conflitto che serpeggia da anni, senza interruzione. Le guerre in Congo si combattono per il coltan, un minerale che tutti, senza saperlo, utilizzano e che sul mercato industriale vale più dei diamanti.
Il coltan è una combinazione di colombite e tantalite (la percentuale di quest’ultima componente ne determina il prezzo) che, a prima vista, potrebbe essere scambiato per carbone. E invece è molto è diverso. E’ fondamentale per l’industria hi-tech: dal coltan infatti si estrae il tantalio, metallo che viene usato sotto forma di polvere nell’industria della telefonia mobile, nella componentistica dei computer e in quella degli aerei. I condensatori al tantalio servono ad ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di ultima generazione: permettono un risparmio energetico e una maggiore autonomia degli apparecchi. Il coltan è usato anche nell’industria aerospaziale per fabbricare i motori dei jet, gli airbag, i visori notturni, le fibre ottiche.
Pochi di quelli che utilizzano gli smartphone lo sanno, ma il Congo possiede la maggior parte del coltan estratto e destinato all’industria. È per questo che le maggiori multinazionali fanno di tutto per ottenere lo sfruttamento delle miniere, pagando la manodopera locale a prezzi elevati per quelli che sono gli standard africani: 200 dollari al mese a fronte di un salario medio si aggira intorno ai dieci dollari. Benefici economici di cui, spesso, non giova la popolazione locale: nella maggior parte dei casi la manodopera proviene dall’Angola e dal Ruanda.
Da decenni in Congo è in atto una vera e propria guerra per accaparrarsi le risorse minerarie, come nella parte orientale del Congo, nel Kivu, che è bellissima ed è una specie di paradiso terrestre. Si estende verso la Rift Valley ed è vicina alla foresta equatoriale; il clima è ideale: non è mai troppo caldo o troppo freddo e nella natura si trova la zona in assoluto più ricca di minerali e risorse di tutto il territorio congolese. Si estraggono oro e diamanti, che spesso finiscono sui mercati internazionali in modo assolutamente illegale, ma, soprattutto, coltan.
Il Congo è un paese molto grande, misura quanto tutta l’Europa occidentale ma è assolutamente carente di infrastrutture, ferrovie o strade che la colleghino agevolmente ad essa. E la distanza di questa regione dalla capitale rende quasi impossibile controllarla. In questa regione è fin troppo facile per i Lords of war (i signori della guerra, come vengono chiamati) diventare i principali interlocutori delle multinazionali. Solo queste ultime e i signori della guerra conoscono l’esatta ubicazione delle piste clandestine per l’atterraggio degli aerei provenienti dall’Europa, dall’America e dall’Asia: aerei che arrivano, caricano il materiale estratto dal sottosuolo e vanno via. Niente controlli, niente frontiera, niente leggi né regolamenti, niente di niente: su questo territorio ricchissimo di risorse vige una sola regola, quella del più forte, di chi possiede più armi. Armi che spesso vengono usate per controllare un’area o per schiavizzare intere tribù.
Del resto a chi paga per il coltan non interessa nient’altro: non interessa sapere che questo mercato clandestino e senza controlli ha finora causato diverse milioni di morti.
Quella che avrebbe potuto essere la maggiore fonte di ricchezza per i congolesi è, in realtà, una maledizione: l’estrazione, fatta da adulti, ma anche da bambini, si fa scavando a mani nude o con attrezzi primitivi, incuranti del fatto che il materiale estratto è radioattivo, poiché vi sono particelle di uranio che genera tumori ed altre patologie, come l’impotenza sessuale. E, nelle miniere, ogni giorno, muoiono decine e decine di persone. Non si sa neanche quanti: non esistono registri né dati ufficiali.
Tutto avviene nella più totale indifferenza e nel più assoluto silenzio. Non ne parlano le autorità congolesi: il territorio è troppo vasto e non dispongono dei fondi per gestirlo e controllarlo. Non ne parlano le organizzazioni internazionali né le associazioni per i diritti civili che pure conoscono bene la situazione: un rapporto di un gruppo di esperti dell’Onu, che ha indagato sui gruppi armati operanti nell’area dell’Africa centrale, ha confermato lo stato di totale anarchia e il fatto che intere regioni del Congo sono controllate da gruppi di guerriglieri. Non ne parlano le grandi multinazionali (che possono reperire materie prime essenziali per i loro prodotti a costi quasi nulli). Nessuno parla del dramma del coltan.
E anche chi ne ha parlato, come il regista danese Frank Piasecki Poulsen che già nel 2010 ha denunciato lo sfruttamento della manodopera minorile in Congo nel documentario Blood in the Mobile, è rimasto inascoltato. Nessuno deve sapere che lo smartphone di ultima generazione, che è costato centinaia di euro e ore di coda presso i rivenditori, è macchiato di sangue: il sangue di milioni di congolesi ridotti in schiavitù per estrarre il coltan.