Sempre più bottiglie di plastica. E sì che dal rubinetto l’acqua è migliore

di C. Alessandro Mauceri

Ormai dovrebbe essere evidente che le belle parole e le promesse fatte dai governi di turno servono a poco e che la realtà è spesso diversa. Molto diversa. Armi e strumenti di distruzione di massa vendute per missioni “di pace” a paesi che le usano per bombardare popolazioni inermi; promesse di ridurre i cambiamenti climatici mentre le emissioni di CO2 continuano ad aumentare; donne e bambini che muioiono di fame in tutti i continenti, mentre nei paesi sviluppati oltre il 30% del cibo finisce nella spazzatura… Di esempi ce ne sarebbero tanti. Anche le ultime “promesse” dei leader mondiali al G20 di Osaka che parlano di riduzione della produzione di “plastica monouso” e di “acqua”, dovrebbero far riflettere.
In occasione del G20 di Osaka il ministro dell’Ambiente italiano Sergio Costa ha parlato della necessità di uscire dal “Plasticocene”.“È improcrastinabile definire una strategia planetaria comune con tempi certi affinché il pianeta esca definitivamente dall’età della plastica monouso”.
Quello che non ha detto è che nel mondo la produzione di palstica continua a crescere vertiginosamente. E che uno dei mercati più floridi e con gli effetti più dannosi sull’ambiente è proprio quello della plastica monouso.
Dagli anni Ottanta il consumo di acqua in bottiglia è sensibilmente aumentato. E l’Italia è ai primissimi posti di questa classifica: è il primo paese in Europa e il terzo nel mondo, per consumi di acqua in bottiglie di plastica con 206 litri nel 2018, contro una media europea è di 117. Un valore peraltro in aumento: il consumo era 188 litri annui a persona nel 2017. A livello globale solo Messico e Tailandia consumano più acqua in bottiglia dell’Italia. Ma in questi paesi, come confermano i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’accesso all’acqua potabile è difficile: nel 2015 solo il 43% della popolazione messicana aveva accesso ad acqua sicura, e in Thailandia questa percentuale era del 47%. In questi paesi come in molti altri paesi dell’Africa, del Sud America o dell’Asia riuscire a trovare acqua potabile non sempre è facile. Spesso i fiumi sono “malati” di antibiotici sversati direttamente dagli allevamenti o dalle industrie che operano senza controlli o a causa di un trattamento delle acque reflue non ottimale. A confermarlo un lavoro coordinato dall’Università di York e presentato al congresso della Society of Environmental Toxicology and Chemistry (SETAC). Sono stati analizzati 711 campioni raccolti dai fiumi di 72 paesi ed è stata scoperta la presenza di antibiotici nel 65% dei casi, spesso a concentrazioni superiori ai limiti, che oscillano dai 20 ai 32mila nanogrammi per litro a seconda della molecola e sono state stabilite dalla AMR Industry Alliance. In Bangladesh, ad esempio, è stato rilevato metronidazolo in quantità fino a 300 volte quelle considerate sicure. Un altro antibiotico, il trimetoprim, impiegato soprattutto per le infezioni del tratto urinario e trovato in 307 dei 711 campioni: è l’antibiotico più diffuso nelle acque di tutto il mondo. Si tratta di condizioni che in questi paesi potrebbero giustificare un consumo elevato di acqua in bottiglie di plastica.
Ma non in altri paesi come negli USA e in Europa. Qui l’acqua che esce dai rubinetti è decisamente più pulita. In Italia e in Europa, fatte salve alcune rare eccezioni locali, l’acqua che esce dai rubinetti è pulita. Anzi spesso è migliore anche dell’acqua comprata nelle bottiglie di plastica. Alcune analisi condotte dai ricercatori della State University of New York at Fredonia hanno rilevato che l’acqua in bottiglia può contenere in media una quantità di microplastiche doppia rispetto a quella rilevata nell’acqua del rubinetto: nel 93% delle bottiglie analizzate sono state rilevate tracce di plastica, per una media di 10,4 particelle per litro contro le 4,45 dell’acqua di rubinetto e nel 54% dei casi si trattava di propilene, utilizzato per la produzione dei tappi.
In Italia poi è stato recentemente adottato il Water Safety Plan, un sistema per il monitoraggio della rete idrica, inclusa una sorta di “mappatura del rischio”, dalla falda acquifera al rubinetto delle abitazioni. Quindi non è certo la qualità o la salubrità dell’acqua la motivazione di un simile smodato consumo di acqua in bottiglie di plastica. Anzi.
Eppure, ogni anno, è in Italia, in alcuni paesi europei e negli USA che si rilevano i maggiori consumi di acqua in bottiglia di plastica, fatta eccezione per Messico e Tailandia. Contenitori che poi solo in minima parte vengono riciclati: 46 miliardi di bottiglie in plastica finiscono per buona parte nell’ambiente. Solo Italia annualmente tra i 7,2 e gli 8,4 miliardi di bottiglie finiscono nella spazzatura. Ma anche quelle che finiscono nella raccolta differenziata non sempre raggiunge l’obiettivo prefissato: solo una minima parte di tutta la plastica utilizzata viene effettivamente riciclata e non sempre viene reimpiegata per produrre altre bottiglie (il cosiddetto downcycling).
Se a tutto questo si aggiunge che, come ha confermato la Commissione europea, che ridurre il consumo di acqua in bottiglia potrebbe far risparmiare alle famiglie europee circa 600 milioni di euro l’anno, non è spiegabile un consumo di acqua in bottiglie di plastica scosì elevato.
Per capire di più bisogna dare un’occhiata dall’altro lato della barricata. Dove le regole sono quelle dettate dal business dell’acqua in bottiglia: secondo i dati di Beverfood sono circa 259 marchi registrati di acqua imbottigliata venduti in Italia, tre quarti dei quali facenti capo a uno sparuto numero di grandi gruppi (otto). In base a quanto previsto dalla Conferenza delle Regioni del 2006, avrebbero in concessione le fonti e dovrebbero pagare un canone. Ma si tratta di somme che consentono comunque margini di quadagno enormi per le aziende.
I consumatori vengono tartassatti dal pressing di campagne pubblicitarie che ricordano ai consumatori che l’acqua in bottiglia proveniene da vette d’alta montagna e nevi perenni e che è migliore dell’acqua che esce dal rubinetto di casa. Ma questo “essere migliore” spesso non è che l’ennesimo trucco pubblicitario: test di laboratorio hanno dimostraato che l’acqua che esce dal rubinetto di casa non ha niente da invidiare (anzi) a quella venduta nelle bottiglie di plastica. E costa pure meno, molto meno. E che, in media, servono circa due chili di petrolio per ottenere un chilo di plastica Pet (dati Legambiente Imbrocchiamola), per produrre ogni anno i sei miliardi di bottiglie da un litro e mezzo richiesti dal mercato servono di più di 450mila tonnellate di petrolio, cui vanno aggiunte oltre 1,2 milioni di tonnellate di CO2.
Ma non basta. L’impatto sull’ambiente dell’acqua imbottigliata non si limita all’utilizzo smodato di plastica monouso: anche l’inquinamento legato al trasporto è tutt’altro che secondario visto che spesso i consumatori vengono invogliati a non limitarsi ad utilizzare l’acqua imbottigliata in loco ma ad acquistare prodotti che fanno centinaia se non migliaia di chilometri. E un autotreno immette nell’ambiente fino a 1300 kg di CO2 ogni mille km.
Da quale parte penda l’ago della bilancia e la convenienza per i cittadini e i consumatori è evidente. Invece, stranemente, almeno due terzi degli italiani, il 67%, preferiscono continuare a bere “abitualmente” acqua minerale in bottiglie di plastica. Solo il 27% degli italiani dichiara di consumare acqua del rubinetto depurata o acqua minerale in bottiglie di vetro (il 25%). Ancora minore la percentuale di chi consuma acqua delle casette dell’acqua municipale (il 12%) (dati Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile 2018).
Cittadini e consumatori bramosi di salvare l’ambiente, basta leggere i commenti sui social network quando si parla di plastica o di inquinamento. Ma incapaci di agire, come storditi dal pressing mediatico dei grandi gruppi commerciali, quando si tratta di agire.
Anche quando sarebbe facile come bere un bicchiere d’acqua… dal rubinetto.