La strage di Natale del rapido 904

La "zona grigia" tra mafie, terrorismo e insidie alla legalità.

di Maurizio Delli Santi * –

È la sera del 23 dicembre 1984. Il treno rapido 904 proveniente da Napoli attraversa la galleria degli Appennini di San Benedetto Val di Sambro, con una fitta presenza di famiglie dirette verso Milano, dove trascorreranno il Natale. La zona è quella della strage del treno Italicus, che nell’agosto del 1974 aveva causato la morte di 12 persone. Alle 19.08 di quella sera un dispositivo radiocomandato fa esplodere l’ordigno stavolta mentre il rapido 904 attraversa la galleria. Le vittime saranno 16, e 267 i feriti. È gente comune: uomini, donne, bambini, studenti universitari, operai e pensionati.
Anche questa, come le tante altre stragi iniziate il 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana, è rimasta un episodio dell’Italia della paura di cui ancora non si conoscono gli esatti contorni. Eppure le indagini furono intense e sembrarono portare a riscontri concreti. La Procura della Repubblica di Bologna dispose subito una perizia chimico-balistica che accertò il materiale utilizzato e le dinamiche dell’esplosione. La Procura di Firenze sviluppò le dichiarazioni di un testimone che alla stazione Santa Maria Novella aveva visto una persona sistemare nella nona carrozza due borsoni. Tre mesi dopo la strage la Procura di Roma si occupò di una perquisizione che aveva portato al ritrovamento di due valigette contenenti radiocomandi a lungo raggio, compatibili con quelli adoperati sul 904. L’immobile della perquisizione, nel quartiere Prati, apparteneva ad un “luogotenente” di Cosa Nostra, collegato alla banda della Magliana. Le indagini portarono al collegamento con un artificiere tedesco. Seguì il ritrovamento di altro materiale esplosivo in proprietà di altri capi mafiosi. La Procura di Napoli si interessò invece delle dichiarazioni di un pentito, vicino alle gang camorristiche e ai movimenti dell’ultra-destra, che aveva preannunciato la possibilità di una strage a Natale. L’intento era stato appreso in una riunione cui aveva partecipato un parlamentare dell’estrema destra, poi arrestato e condannato per detenzione di esplosivo. Si parlò anche di un giovane camorrista diciassettenne che sarebbe salito sul treno il giorno della strage con l’esplosivo. Ma il giovane non poté dire la sua: fu ucciso nel marzo del 1985.
Le indagini bolognesi, fiorentine, romane e napoletane hanno fatto emergere un quadro fino ad allora inedito: l’intreccio tra Cosa Nostra, la Camorra, la banda della Magliana e l’estrema destra criminale. Era il periodo dei Corleonesi e della Nuova Famiglia, vincenti rispettivamente in Sicilia e Campania. Per il magistrato Pier Luigi Vigna il loro obiettivo era distogliere l’attenzione mediatica sulle rivelazioni di Buscetta rilanciando una nuova emergenza del terrorismo.
Nel processo di primo grado, nel 1989, la Corte d’Assise di Firenze condannò a tre ergastoli, con l’accusa di strage, i capi mafiosi e camorristi, mentre l’artificiere tedesco fu condannato a 25 anni. Dopo l’appello, che riformò in parte la sentenza, nel 1991 la Cassazione del giudice Carnevale annullò la sentenza di appello, rinviando ad un nuovo procedimento. Il secondo processo d’appello confermò sostanzialmente le condanne principali. E nel 1992, stavolta, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione conferma le condanne, riconoscendo la matrice “terroristico-mafiosa” dell’attentato. Le indagini non si sono fermate e portano anche al “capo dei capi”. Ma il mafioso dei pizzini nel 2015 in primo grado viene assolto, e prima del processo di appello nel 2017 muore in carcere.
Rimane un monito la chiave della lettura che di quella stagione ha dato la Commissione stragi del 1995, nella relazione del senatore Giovanni Pellegrino: “La matrice mafiosa nell’ultima delle grandi stragi che chiude il quindicennio 1969-84 offre una pista che conduce in una zona grigia caratterizzata da rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti, criminalità politica e comune, il cui ruolo appare ormai innegabile in molte delle vicende anche anteriori al 1984”.
“Oggi le mafie hanno spento i riflettori”, ha detto Giuseppe Governale, ex capo del Ros e della Dia, alla presentazione del suo libro “Sapevamo già tutto”, un percorso sulla storia della mafia che parte dal rapporto del questore Ermanno Sangiorgi di Palermo del 1898. La nuova mafia rinuncia oggi alla strategia delle stragi e delle uccisioni, ma non è meno subdola e insidiosa: preferisce “inabissarsi”, per meglio condurre gli affari criminali, riciclare e corrompere, cercando di infiltrarsi e di condizionare il sistema politico ed economico, che da sempre, anche se con metodi diversi, è il target della mafia. E come dimostrano le tristi cronache di questi giorni, il problema riguarda proprio l’insidia più subdola: quella alla “legalità” delle cose più comuni, come il falsificare un green pass o simulare una vaccinazione, traendone illeciti profitti e non curandosi delle conseguenze per la collettività. Se ci sono individui, soggetti che esercitano una funzione pubblica o svolgono una attività privata, disposti a questo, sarà facile anche per le mafie avvalersene, per reclutarli, più o meno consapevolmente, nel loro sistema affaristico-criminale.

* Membro dell’Associazione Italiana Giuristi Europei.